Il giurista Carlo Arturo Jemolo per rivendicare l’autonomia della famiglia rispetto allo Stato parlava di « un’isola che il mare del diritto può solo lambire » e ancora più incisivamente aggiungeva:
« la famiglia è la rocca sull’onda, ed il granito che costituisce la sua base appartiene al mondo degli affetti, agli istinti primi, alla morale, alla religione, non al mondo del diritto »
Con tale espressione il grande giurista intendeva descrivere la difficoltà di ogni legislatore nel regolare i rapporti più intimi della natura umana perché difficilmente riconducibili nell’ambito degli schemi giuridici.
Lo stesso avvertimento avrebbe dovuto riecheggiare nelle stanze della Presidenza del Consiglio, chiamata a intervenire, nella fase più acuta della pandemia, anche sulla regolamentazione degli aspetti forse tra i più sfuggenti e mutevoli della nostra vita quotidiana e ciò gli affetti e le nostre relazioni personali.
Come ormai noto, attraverso una prolungata serie di atti amministrativi (i c.d. DPCM), si è cercato nel caos dell’emergenza sanitaria di individuare e dettagliare al massimo le norme comportamentali necessarie a limitare la diffusione del virus.
Nella conseguente bulimia amministrativa si è così provato a disciplinare le condotte quotidiane sia in ambito pubblico che privato: per strada, nei luoghi di lavoro e di ricreazione, nei negozi, nei ristoranti e nelle mense, nei parchi, sui mezzi di trasporto, eccetera. Per ogni atto emanato abbiamo letto molteplici divieti e differenti modalità di comportamento sempre più dettagliate.
In questa babele normativa la fattispecie che ha sollevato più polemiche è stata quella prevista all’art. 1 lett. a) del Dpcm 26 aprile 2020 in cui, tra le altre ragioni, si consentivano gli spostamenti dei cittadini se necessari « per incontrare congiunti purché venga rispettato il divieto di assembramento e il distanziamento interpersonale di almeno un metro e vengano utilizzate protezioni delle vie respiratorie.
Ed ecco che all’indomani della pubblicazione della disposizione normativa, molti giuristi si sono affannati a dare una compiuta spiegazione del termine congiunti passando in rassegna quanto previsto nella legislazione nazionale nella speranza di ricavarne un’univoca definizione onnicomprensiva.
In ambito civile congiunti è una locuzione utilizzata in contesti specifici e di settore e secondo la banca dati normattiva.it, la parola ricorre per ben 561 volte, negli ambiti e nei casi più vari.
Mentre è il codice penale che all’art. 307 c.p. offre un’ampia descrizione del suddetto termine. In particolare nella fattispecie di reato rubricato “Assistenza ai partecipi di cospirazione o di banda armata” si prevede l’esclusione della responsabilità penale per i prossimi congiunti che sono definiti in una lunga lista tra gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti.
La nozione di congiunti seppur giuridicamente confusa, avrebbe potuto accontentare i più, ma si sa che in Italia come scriveva Flaiano “la linea più breve tra due punti non è la retta ma l’arabesco” e la legge ne è forse la massima espressione nazionale.
Così i giuristi più attenti hanno subito fatto notare come quella nozione non tenesse conto di quanto affermato anche dalla recente sentenza della Corte di Cassazione penale il 10 novembre 2014 n° 46351. In tale pronuncia si è affermato il principio di diritto secondo cui per il risarcimento del danno a seguito di incidente stradale, nella categoria dei prossimi congiunti andavano ricompresi tutti coloro che avevano avuto con la vittima « un saldo e duraturo legame affettivo », a prescindere « dall’esistenza di rapporti di parentela o affinità giuridicamente rilevanti come tali ».
Il termine congiunti grazie anche a questi ulteriori spunti giurisprudenziali doveva essere inteso nell’accezione più ampia di “relazione affettiva stabile”, incluse le convivenze non matrimoniali, secondo quanto stabilito anche in ambito civile dall’articolo 1, co. 36 della legge n. 76 del 2016 sulle convivenze di fatto.
Ebbene nonostante lo sforzo definitorio il termine è stato il protagonista del dibattito pubblico anche nei giorni successivi. Si è resa necessaria infatti una nota di Palazzo Chigi per specificare come anche i fidanzati rientrassero nella nozione di congiunti perché riconducibili alla categoria degli affetti stabili.
Come prevedibile, l’ulteriore specificazione della nozione ha generato nuove speranze per tutte quelle categorie di affetti che erano rimaste comunque escluse dalla previsione normativa e dalla sua successiva interpretazione autentica.
E allora in molti si sono interrogati se gli amici potessero rientrare tra gli affetti stabili e se anche in tempi di pandemia, fosse lecito stabilire per atto amministrativo una gerarchia dei legami affettivi per giustificare incontri e frequentazioni. Perché se è vero che l’amicizia è cosa diversa dal vincolo dell’amore è comunque uno di quegli ingredienti essenziali dell’esistenza, ciò di cui nessuno di noi può davvero fare a meno. Gli amici d’altronde si scelgono, a differenza dei familiari che si ereditano o subiscono, e con i quali, spesso controvoglia, si cerca di trovare il modo di convivere. (M. Marzano).
Anche il Governo è stato condizionato nelle sue decisioni dai numerosi dubbi e dalla grande confusione terminologica tanto che in un primo momento il Viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri, aveva sostenuto, per poi essere subito smentito, che gli amici si potessero considerare tra gli affetti stabili.
E così, inevitabilmente, ogni eccezione ha finito per sollevare nuove incertezze in un gioco infinito di domande sulla meritevolezza e l’intensità dei rapporti personali.
Per sciogliere il nodo gordiano il Governo è dovuto quindi ricorrere alle Faq (Frequently Asked Questions), e stabilire che al fine di limitare al massimo la diffusione del virus, gli amici non potessero essere considerati tra la categoria degli affetti stabili.
La soluzione adottata è stata sicuramente la più opportuna e di buon senso ma ha lasciato molte perplessità non tanto per l’imposizione del divieto quanto piuttosto per la iper-regolamentazione dei comportamenti umani. Il legislatore infatti con il nobile intento di combattere il virus si è lasciato travolgere da una produzione normativa elefantiaca che ha finito per generare confusione e disorientamento nella società.
Occorre chiedersi se in questo labirinto normativo il legislatore non si sia spinto troppo in avanti nel tentativo di regolare qualcosa che per propria natura si presenta da sempre come irriducibile agli schemi di un diritto che parla invece di uguaglianza, regolarità e uniformità. In altre parole, è possibile ingabbiare i sentimenti e le relazioni personali nel rigore della regola giuridica?.
Lungi dal voler denunciare una deriva autoritaria ci si chiede se il Governo non abbia ecceduto in quella pretesa di trasformare le persone in oggetti modellati giuridicamente , come se la virtù del buon cittadino sia di essere semplicemente un osservante che s’inchina a un legislatore onnipossente. (Zagrebelsky).
In alternativa il Legislatore italiano nell’autorizzare « gli spostamenti», avrebbe per esempio potuto evitare di inserire la definizione di prossimi congiunti, e riferendosi al divieto degli assembramenti riconoscere ai singoli cittadini la facoltà di scegliere chi frequentare tra le proprie affinità elettive.
Oppure come successo in Francia e in Belgio si poteva ampliare la categoria normativa e consentire le visite ad amici e fidanzati, nel rispetto di tutte le regole sulla sicurezza e fatto salvo il generale divieto di assembramento.
Con il lungo protrarsi della pandemia e nella rigidità delle regole imposte dal lockdown per garantire il c.d distanziamento sociale, pretendere anche l’ubbidienza dei sentimenti è sembrato eccessivo e forse troppo paternalistico.
In una società libera e di fronte a problemi dove il bene dei singoli e il bene di tutti si implicano strettamente, la legge incontra limiti di efficacia se non può contare sulla partecipazione responsabile di ciascuno e di tutti (Zagrebelsky).
Perché come scriveva Rodotà l’amore nella sua assenza, è «allergico alle goffaggine del diritto […] Dobbiamo allora convenire che, se il diritto vuole avvicinarsi all’amore, deve abbandonare non solo la pretesa d’impadronirsene, ma anche trasformare tecnicamente sé stesso in un discorso aperto, capace di cogliere e accettare contingenza, variabilità e persino irrazionalità. Soprattutto, di fronte alla vita, il diritto deve essere pronto a lasciare il posto al non diritto ».
* dottorando Università di Siena