Rispondendo a Chiti: gli otri vecchi dell’imperatore

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di Fulvio Costantino 

Si prova ad offrire un contributo al dibattito aperto dall’interessante articolo di Edoardo Chiti, che permette di partire dalle contingenze per alzare lo sguardo, così da cercare di vedere dall’alto e, soprattutto, verso l’orizzonte.

1. Le questioni poste, relative a quale autorità, quale rapporto con i privati, quali cassette degli attrezzi e quali contenuti servano per affrontare il tempo che ci aspetta, sono di difficile soluzione. La crisi epidemica ha evidenziato nodi e lacune già presenti negli ordinamenti, e se questi problemi risultano oggi aggravati, se ne profilano all’orizzonte di nuovi, molto gravi, dal punto di vista economico-sociale.

Si può per questo prevedere che la crisi costringerà a cambiare modelli, paradigmi, strumenti; certamente però, se è difficile prevedere cosa di nuovo potrà essere proposto (e, ancor prima, proporre qualcosa), al tempo stesso ci sono delle riforme che erano già state indicate e che, per indolenza (e quindi quantomeno per mancanza di lungimiranza e/o per mancanza di urgente necessità) e per carenza di risorse economiche non sono state attuate.

In questo senso, da un lato si è mostrato, in diversi modi nei vari ordinamenti, che l’imperatore è nudo; dall’altro, certamente serviranno otri nuovi per il vino nuovo, ma può darsi anche che gli otri vecchi, sinora poco utilizzati, siano perfettamente utili allo scopo, purché vadano presi sul serio e, certamente, riadattati.

2. In merito al primo profilo, ci si chiede come governare nuove forme di autorità.

Il dibattito in corso sulle applicazioni di tracciamento, per tornare all’esempio proposto, è da guardare con favore: è bene ci si interroghi sul funzionamento delle stesse, sui dati coinvolti, sul tempo in cui questi ultimo saranno a disposizione dell’autorità, sul modo in cui essi verranno raccolti, gestiti, incrociati, elaborati, diffusi, e così via, ancor più che sull’obbligatorietà dell’installazione delle applicazioni stesse.

Come ben indicato nell’intervento introduttivo al dibattito, centrale risulta la messa a punto degli strumenti, così che “siano portate dentro al processo di progettazione tecnica le questioni giuridiche”. A tal proposito, se non è possibile soffermarsi sulle questioni poste dall’articolo relativo ai profili giuridici relativi alla tutela dei dati personali e al rapporto tra discrezionalità amministrativa e intelligenza artificiale, in quanto oggetto di innumerevoli studi pubblicati o in corso di pubblicazione, ci si limita a sottolineare che i vecchi principi della partecipazione e della trasparenza appaiono come più che validi fari per affrontare questi problemi, anche se casomai vanno declinati in maniera inedita.

Dato l’impatto di eventuali pregiudizi nella costruzione di un algoritmo in un numero potenzialmente molto alto di casi e con conseguenze anche gravi, la tutela deve essere anticipata e implementata anzitutto nella fase di progettazione dello stesso. I dati vengono intrecciati, elaborati, diffusi, e i loro prodotti di nuovo intrecciati, elaborati, diffusi in un processo continuo; gli elaboratori sono, se lo si permette loro, in grado di stabilire essi stessi le regole per risolvere casi (senza quindi limitarsi ad applicare regole poste da fuori); il numero enorme di variabili di cui l’elaboratore è in grado di tenere conto, di calcoli che è in grado di effettuare, magari sulla base di regole e di valutazioni che esso stesso ha posto, può rendere incontrollabile la decisione ex post.

Porre paletti all’impiego della tecnologia disponibile a monte può spesso risultare eccessivo, visto che le potenzialità sono inesplorate e potrebbero essere gravide di benefici. Ma può essere anche inutile: si può stabilire che una decisione completamente automatizzata sia illegittima, ma se l’essere umano ha un’indicazione anche solo di ausilio dall’elaboratore, l’atteggiamento più razionale e prudente sarà comunque quello di convalidare l’indicazione fornita dall’elaboratore, per quanto implausibile essa possa sembrare.

Sarà importante invece stabilire prima (e strada facendo) quali domande porre, quali dati utilizzare, di quali non tenere conto, quale peso dare alle decisioni, entro quali termini siano ammissibili nuove regole, e così via.

Andranno superati però almeno due ostacoli. Il primo, organizzativo: il noto impoverimento delle risorse tecniche dell’amministrazione. Ci si può, e ci si dovrà rivolgere ad enti senza scopo di lucro, alle università, a centri di ricerca indipendente. Ma l’amministrazione deve essere in grado di sapere quello che vuole, avere un’idea di come realizzarlo, verificare quanto accade. Il problema si presenta secondo le stesse coordinate anche nell’ordinamento statunitense, non solo nel nostro (R. BRAUNEIS, E.P. GOODMAN, Algorithmic Transparency for the Smart City, in Yale J.L. & Tech., 2018).

Il secondo: serve una presa di coscienza dell’importanza della partecipazione e della trasparenza nella fase della progettazione, della programmazione, dell’adozione di regole generali. Si è giuridicamente assimilata la costruzione degli algoritmi alla elaborazione di atti amministrativi generali. Per fare solo un esempio legato all’esperienza italiana, la disciplina generale sul procedimento amministrativo, a trent’anni di distanza dalla sua prima formulazione, rimane ancora insoddisfacente sotto questo punto di vista: essa avrebbe potuto far diffondere l’idea che il principio di partecipazione avesse una valenza generale, salvo eccezioni; invece ha veicolato la convinzione che la partecipazione riguardasse, salvo eccezioni, solo i provvedimenti individuali, prevalentemente in chiave difensiva.

La trasparenza e la partecipazione nella costruzione di strumenti che hanno un impatto sui cittadini deve essere la regola. In questo senso, la disciplina sull’ambiente ha svolto un ruolo di avanguardia per molti istituti del diritto amministrativo, ad esempio in temi di partecipazione e trasparenza. La stessa logica (che ricomprende ad esempio anche forme di comunicazione al pubblico dei progetti in termini comprensibili) sembra applicabile anche a molte delle nuove sfide che sono oggi poste (dal contact tracing alla costruzione di algoritmi di intelligenza artificiale).

3. In secondo luogo l’articolo Chiti pone il problema del rapporto con i privati, in particolare con i big tech, che dispongono di entrate economiche e di una capacità di impatto sull’economia e sulla società, superiori a molti Stati.

L’esempio offerto è particolarmente calzante: l’istruzione viaggia su piattaforme digitali private. Si tratta, notoriamente, di un processo in corso da molto tempo: basti pensare, tra l’altro, al servizio di posta elettronica di queste piattaforme, del quale le università oramai normalmente e istituzionalmente si avvalgono. Esperimenti, ricerche innovative, scoperte sono così disponibili ai big tech molto prima che possano essere brevettate, realizzate o divulgate al pubblico.

Informazioni e dati peraltro sempre più raramente sono conservati sui computer stessi o su server proprietari, ma su cloud dei suddetti operatori privati. Gli stessi servizi oramai, e non solo i dati relativi, sono forniti via cloud.

La riflessione introdotta dal contributo è dibattuta anche sotto il profilo del cd. sovranismo digitale: gli Stati non sono in grado di garantire tutela ai propri cittadini, dal momento che dati, informazioni, software, elaborazioni sono affidati a piattaforme private straniere che ne dispongono in maniera gelosa ed esclusiva. L’Unione europea è il soggetto più appropriato per la realizzazione di infrastrutture digitali, tra cui un cloud europeo, essenziale anche per materie quali difesa, sicurezza, ordine pubblico. La realizzazione di infrastrutture, ovviamente, porterà l’Unione ad un livello di “integrazione sempre maggiore” e alla creazione di uno spazio e mercato unico.

Il dibattito sulle piattaforme digitali private che “si fanno potere pubblico” è vivace: si sostiene che i soggetti privati che acquisiscano rilevante potere rispetto a beni e servizi di importanza fondamentale e che costituiscano la spina dorsale della infrastruttura economica-sociale dell’ordinamento vadano qualificati come public utilities: i rischi derivanti dal potere a loro disposizione giustificherebbero l’apposizione di limiti all’organizzazione aziendale e alla struttura delle imprese (per evitare pratiche che possano minare la fornitura di tali beni e servizi), la fissazione sia di divieti di discriminazione o disparità di trattamento nei prezzi, che di obblighi a fornire servizi in condizioni di equità, convenienza e accessibilità; la predisposizione di alternative pubbliche, più economiche, per offrire in alternativa versioni di base dei servizi degli operatori privati (K. S. RAHMAN, The New Utilities: Private Power, Social Infrastructure, and the Revival of the Public Utility Concept, Cardozo L. Rev., 2018).

Anche in ordine al profilo della rivisitazione dei tradizionali strumenti della concorrenza e della regolazione, l’inadeguatezza dell’attuale strumento è ben chiara sia nell’ordinamento europeo che nell’ordinamento statunitense: sono proposti, tra l’altro, rafforzamento dei poteri di acquisizione delle informazioni al di fuori dei procedimenti istruttori, sanzioni più incisive, il controllo preventivo di operazioni di fusione e acquisizione di imprese innovative che oggi sfuggono al vaglio delle autorità a causa della natura e del livello delle soglie previste, standard che facciano riferimento al criterio dell’impedimento significativo della concorrenza effettiva: tutto ciò nel tentativo di riformare, senza necessariamente sostituire, vecchi strumenti per disciplinare situazioni nuove.

4. In merito all’ipercomplessità del diritto amministrativo, è certamente difficile districarsi tra le tante fonti e tra i tanti livelli di regolazione, ed è indubitabile che nella pratica i criteri di ordinamento delle fonti si siano rivelati inefficaci o impraticabili. Del resto, non solo la semplificazione normativa e procedimentale è difficile, perché sono sempre più gli interessi coinvolti, i soggetti deputati a curarli, i diversi livelli di governo e perché i meccanismi di semplificazione, in particolare, procedimentale, indispensabili per decidere, corrono il rischio di togliere voce agli interessi; ma soprattutto, non è mai stato sottolineato abbastanza come la semplificazione sia in grado di ridurre la complicazione, non la complessità. Il tema posto della possibilità di fornire maggiore margine di scelta all’amministrazione tra le componenti del diritto è tutto da esplorare, e sul punto si ha poco da dire: ci si limita solo ad osservare che il tema delle fonti del diritto amministrativo è stato nel corso di questi ultimi anni poco studiato, e in questo basti pensare al poco spazio che ad esso viene dedicato nei manuali; esso merita invece un’attenzione specifica e peculiare, che non può essere affidata ai soli studiosi di diritto costituzionale.

5. Da ultimo, in riferimento al sostegno alla ricostruzione economica ed ecologica: già la crisi economica del 2008 ha richiesto agli Stati l’assunzione di un nuovo ruolo, che certamente non avrebbe potuto essere quello di neutrale osservatore, e in virtù di ciò le amministrazioni hanno assunto un ruolo attivo rispetto allo sviluppo economico degli ordinamenti.

Sul punto, è esemplare il parere del Consiglio di Stato del 343 del 2016, in riferimento alla riforma 124 del 2015, in cui vi è “la presa d’atto del mutato ruolo dello Stato, chiamato non solo a esercitare funzioni autoritative e gestionali, ma anche a promuovere crescita, sviluppo e competitività. Infatti, in tutti i maggiori paesi europei, le riforme amministrative del XXI secolo hanno tra gli obiettivi fondamentali sia il contenimento della spesa pubblica sia (soprattutto) quello della crescita economica e della protezione sociale. Si tratta, evidentemente, di obiettivi fortemente legati alla crisi economico-finanziaria (l’emersione del secondo accanto al primo deriva da una visione più ampia e completa del contesto), che hanno indotto gli Stati a rivedere profondamente le politiche pubbliche. Si registra una revisione del perimetro pubblico e dei processi decisionali, funzionali a rendere più efficiente la macchina amministrativa e a fluidificare i rapporti tra Stato e stakeholders”.

Il nesso tra ambiente ed economia non è mai stato posto in ombra, quanto meno nell’Unione europea: in particolare il modello di economia circolare, per quanto ancora da definire ed implementare, è pensato come un modello economico ecosostenibile, esprime il connubio dei due fattori, ed è coerente con il percorso sviluppato in applicazione del principio dello sviluppo sostenibile. Il Green deal europeo, citato nell’articolo, che lo implementa, ne costituisce, come contenitore, lo sviluppo ulteriore, col citato riferimento anche alle politiche sul clima.

In teoria, nelle politiche dell’Unione europea, ma più in generale in virtù di tutti i principi del diritto dell’ambiente formulati in questi anni, i presupposti per ridefinire in termini complessivi il rapporto tra mercato ed ambiente ci sarebbero.

6. Per concludere, i continui riferimenti alla crisi del 1929, alla necessità di un New Deal, che le cronache di questi giorni ci consegnano, verosimilmente non appaiono fuori luogo. Saranno necessarie le intelligenze di molti per immaginare nuovi strumenti, modelli, istituti per affrontare problemi nuovi. Più modestamente, se sapessimo avere il coraggio di prendere sul serio alcune proposte che erano state formulate, potremmo avere fatto un primo passo verso le questioni complesse di cui il diritto amministrativo dovrà farsi carico.

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