Il discorso di Mattarella per il 1° maggio è esemplare. E segna il ritorno del Lavoro al centro della nostra vita. Giorni fa commentavo il “ritorno dello Stato”, dopo anni di annunci della sua imminente scomparsa inghiottito dalla globalizzazione. Ora è il lavoro a riprendersi la scena.Qualcuno si ricorderà di Renato Brunetta, ministro della pubblica amministrazione e dell’innovazione (!), che aveva lanciato l’idea di cancellare dall’art. 1 della Costituzione il riferimento al lavoro. Il lavoro è una merce – diceva – come si fa a fondare la Repubblica su una merce?
Questa è la “cultura” veicolata per decenni dal pensiero degli economisti ubriacati di liberismo e mercatismo. Purtroppo, oltre ad occupare tutte le università del mondo occidentale, questo pensiero ha guidato anche la scrittura delle regole di Maastricht e delle sue due invenzioni: l’euro e la Banca europea (BCE). La stabilità dei prezzi e della moneta è l’unico bene da perseguire, il resto è una variabile dipendente. Il lavoro è una merce il cui valore deve essere finalizzato alla stabilità monetaria: il lavoro e tutto quello che porta con sé, i salari, la stabilità, la spesa pubblica, i servizi sociali.
Oggi il lavoro è tornato, e l’intervento di Mattarella ce lo annuncia a viva voce. Mai come in questo momento di pandemia, chiusi in casa e angosciati delle prospettive del futuro prossimo, capiamo tutti che la nostra vita è legata al lavoro, e non solo perché è la fonte del reddito. Il lavoro è socialità, è personalità, deve essere realizzazione, deve essere creatività, sicuramente deve essere sicurezza; è il modo con cui esprimiamo noi stessi e in cui intravvediamo il futuro dei nostri figli. Ed è quello che speriamo ci sarà restituito presto, appena il virus mollerà la presa.
Anche fare impresa è lavoro, non c’è dubbio. E mi è dispiaciuto che il nuovo presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, tra le prime cose che ha detto dopo l’insediamento, criticando il lock down mantenuto dal Governo (duramente impegnato in un pesante lavoro a tutela della nostra salute) – si sia lamentato che “la politica ci ha esposto ad un pregiudizio fortemente anti-industriale che sta tornando in maniera importante in questo Paese”. Ce l’aveva con i sindacati che pretendevano che il ritorno al lavoro non mettesse in pericolo la salute. Cultura anti-industriale difendere la salute di tutti, perché i rischi di contagio non restano chiusi nei cancelli della fabbrica? Se c’è cultura anti-industriale, la dovrebbe cercare piuttosto tra i suoi associati. In questi giorni, costretto davanti alla televisione più di quanto vorrei, devo subire un’insopportabile pubblicità del gruppo ex Fiat che ricorda d’essere, con tutti i suoi marchi prestigiosi, una delle tante meraviglie d’Italia che scorrono bellissime sul video. Ma la FCA ha spostato la sede legale in Olanda e il domicilio fiscale nel Regno Unito, per sottrarsi alla tassazione italiana: è questa la cultura industriale che dovremmo ammirare e condividere? O quella delle mille imprese che hanno delocalizzato per migliorare i profitti, lasciando indietro un cimitero sociale e siti inquinati abbandonati?
Tanto di cappello per chi, come Bonomi è un industriale di prima generazione (che non ha ereditato l’impresa dal padre insieme alla villa di montagna) e che, quando non scivola sui luoghi comuni, è un esempio per tutti di dove si può arrivare con il lavoro.
Bellissime riflessioni
Il professor Bin tratta un paio di temi importanti. Vorrei proporre un’interpretazione un po’ diversa e concludere, per quanto riguarda l’UE, in modo opposto. Invece di rinviare solo al discorso del Presidente della Repubblica, tonerei più indietro alla dichiarazione dell’auto-proclamatasi Assemblea nazionale del 17 giungo 1789, con l’intervento decisivo di Sieyès, che fonda il diritto di essere rappresentati e di decidere, e implicitamente la cittadinanza (il corpo elettorale attivo, il rappresentato), sul lavoro in opposizione ai diritti acquisiti, ai titoli di proprietà (feudale), ai privilegi patrimoniali e fiscali. È stata questa la vera rivoluzione! Democrazia e lavoro sono inseparabili. Lavoro contro diritti acquisiti, non lavoro contro impresa. Anche lavoro e impresa sono inseparabili. Visto così, con il culto dei diritti acquisiti, si potrebbe temere che stiamo tornando indietro di oltre due secoli. Il lavoro è la base della dignità, anche di coloro che, per qualsiasi ragione incapaci di lavorare (minorenni, anziani, malati, disoccupati), sono assicurati, supportati dalla collettività, quindi da coloro che lavorano e producono. Il lavoro è un diritto di libertà d’intraprendere, o di mettersi al servizio di un’impresa godendo di certe garanzie pubbliche. Ognuno ha il diritto lavorare e di essere remunerato equamente, ma non gode di un diritto al lavoro che lo stato gli dovrebbe procurare. Il lavoro non è una sicurezza individuale, come sostiene il professore, ma il lavoro efficiente è la fonte della sicurezza, una condizione della garanzia sociale. Per ragioni di efficienza o di competitività interna e internazionale conviene lasciare ampia libertà economica ai singoli e garantire la proprietà privata (il “liberalismo” economico) nei limiti della sicurezza e del benessere di tutti, assicurati attraverso la tassazione e i servizi sociali (il “socialismo”, per simmetria). Liberalismo non è supremazia del mercato, delle ricchezze e dei ricchi, degli interessi privati sull’interesse collettivo. Il potere pubblico democratico prevale per definizione sugli interessi privati dei singoli (entro i limiti dei diritti fondamentali …), regolati nella forma del mercato, e sulle loro proprietà, un artefatto sociale come il mercato. Ma coloro che esercitano il potere pubblico, ne devono essere consapevoli e agire di conseguenza invece di piegarsi agli interessi dei poteri privati forti. I principi prudenziali liberali non hanno mai messo in questione il potere dello stato, ma hanno solo prodotto politiche pubbliche e ideologie sbagliate promosse dai diretti interessati e da governi complici. Il fatto che il maggior gruppo industriale italiano possa trasferire all’estero profitti aziendali ottenuti con garanzie pubbliche, prima di dividerli fra soggetti privati e persone fisiche italiane, non è colpa dell’UE, né del mercato comune, né dell’euro, né della BCE, e nemmeno dei governi inglese e olandese, ma dello stato italiano incapace di difendersi e di governi compromessi con i poteri privati. Altri stati dell’UE non permettono artifici abusivi fiscali similari; basterebbe copiarli. La riaffermazione della supremazia dello stato non significa il superamento del liberalismo, ma solo il rifiuto delle aberrazioni liberiste. Affermare che il trattato di Maastricht e le sue due invenzioni, l’euro e la BCE, siano stati fondati sul pensiero degli economisti ubriacati di liberismo e mercatismo è un’analisi storicamente e teoricamente sbagliata e politicamente pericolosa. Non è vero che il mandato della BCE si limiti alla stabilità dei prezzi (NB: le svalutazioni pre-euro della lira erano uno stratagemma per accollare l’onere di politiche fiscali inadeguati ai … lavoratori dipendenti, creando opportunità temporanee per le imprese esportatrici); si estende espressamente anche alla crescita e implicitamente al fattore economico (non una variabile dipendente) nonché valore sociale e umano dell’occupazione. Il rischio dell’interpretazione del prof. Bin è di validare (su un forum di diritto costituzionale!) delle politiche per slogan, l’anti-europeismo nazional-reazionario e la solita politica irresponsabile che trova sempre terzi da incolpare per occultare le proprie inadeguatezze.
Bravissimo sempre avanti con forte salute