La pandemia innescata dalla diffusione del Covid-19, e le misure assunte per limitare il contagio, diluirlo nel tempo, al fine di salvare vite umane ed impedire il collasso dei sistemi di assistenza sanitaria, stanno provocando il crollo repentino e profondo del prodotto interno lordo. 1. Le misure emergenziali per fronteggiare le conseguenze economiche della pandemia. Alla crisi sanitaria si sta dunque sovrapponendo una crisi economica di dimensioni epocali. Una crisi innescata sul lato dell’offerta (dovuta alla interruzione delle attività produttive), cui presto si è aggiunta una crisi sul lato della domanda, in ragione del venir meno dei flussi di reddito generati da quelle stesse attività produttive: una dinamica che rischia di avvitarsi su se stessa, peggiorando ulteriormente la congiuntura economica. Ovunque, pertanto, si predispongono misure emergenziali e di carattere eccezionale anche sul piano economico, al fine di contenere gli effetti di una recessione che si annucia molto profonda.
Ma chi sta intervenendo, e con quali misure? Al centro della scena, è ritornato un attore che molti (negli ultimi decenni) avevano dato per superato, obsoleto, messo all’angolo dal trionfo della globalizzazione e della cd. multilevel governance, e dalla supremazia conquistata dai mercati finanziari: ovvero, lo Stato. Lo fa, in particolare, in virtù delle sue prerogative più classiche: la capacità di battere moneta (sovranità monetaria) e quella di riscuotere le tasse (sovranità fiscale). Ciò che si nota, in particolare, è che le banche centrali statali – secondo moduli operativi che possono anche variare, da paese a paese, ma che si caratterizzano per le medesime dinamiche – stanno operando per fornire liquidità (denaro “fresco”) ai governi, liquidità poi spesa in vario modo, a sostegno dell’economia: prestiti garantiti o finanziamenti a fondo perduto alle imprese, integrazioni al reddito dei lavoratori, investimenti diretti. Più in generale, le banche centrali intervengono a sostegno della spesa pubblica corrente, non più adeguatamente coperta da entrate fiscali che sono state sospese o rinviate (a causa della crisi), e che comunque (sempre a causa della crisi) non saranno in grado di assicurare il livello di entrate messo a preventivo. La liquidità così immessa nell’economia è indispensabile per sopperire al blocco produttivo, contenere gli effetti sul reddito e sugli investimenti, contenere il calo del PIL, in particolare scongiurando il rischio che si inneschi una spirale negativa, così da favorire una più rapida e robusta ripresa, quando se verificheranno in pieno le condizioni.
In Giappone questa politica “anticonvenzionale” è divenuta prassi, negli ultimi anni, mediante la disponibilità della BoJ ad acquistare tutti i titoli di debito indispensabili a mantenere il tasso d’interesse al livello indicato dal governo, e con la crisi pandemica si è ulteriormente rafforzata; la Bank of England ha annunciato l’8 aprile scorso un cambiamento radicale di politica (già sperimentato però, in misura più contenuta, all’alba della crisi finanziaria partita nel 2008) e che consiste nell’ampliamento teoricamente illimitato dello scoperto di conto corrente disponibile al governo di Sua Maestà; e anche la Federal Reserve è pronta a muovere in direzione di un finanziamento diretto del deficit (e secondo molti osservatori lo sta già facendo, in sordina, a partire dall’autunno del 2019). Tutti questi casi sono riconducibili al fenomeno della cd. “monetizzazione” del disavanzo: quella parte di denaro che i pubblici poteri immettono (in vario modo) nell’economia, e che non deriva né dalle entrate fiscali, né da prestiti raccolti nel mercato finanziario. Un’altra espressione in voga per descrivere questo processo è l’immagine delle banche centrali che “stampano moneta”, ad indicare la creazione di denaro da immettere direttamente nell’economia, sebbene l’immagine della “stampante” risulti un po’ naïve.
Per molto tempo questo approccio di politica economica è stato rigettato dalle teorie economiche mainstream (il neoliberismo, in particolare, in tutte le sue declinazioni), tanto da precipitare in esplicite e specifiche soluzioni istituzionali, che vanno sotto la formula di “indipendenza della Banca centrale”. Un assetto istituzionale in cui il finanziamento diretto della spesa pubblica da parte dell’istituto di credito centrale è espressamente vietato: quell’assetto che in Italia si è concretizzato con il “divorzio” della Banca d’Italia dal Tesoro, nel 1981. Tuttavia, le esigenze dettate dalla crisi innescata dal Covid-19, le caratteristiche specifiche di questa crisi, la sua impellenza, hanno determinato una sorta di “riscoperta” della monetizzazione, e delle sue virtù, da parte di molti economisti mainstream, e tra i più autorevoli (ex multis Blanchard e Pisany-Ferry; Paul De Grauwe; Giavazzi e Tabellini, Acocella et al.).
2. I principi dell’Unione Monetaria di fronte alla pandemia. Anche le economie dell’Unione Europea, e quelle dell’Eurozona in particolare, si trovano ad affrontare la medesima sfida. Tuttavia, tali sistemi economici si trovano in una condizione del tutto particolare, che impedisce loro di reagire nel modo indicato (cioè, mediante la monetizzazione), ed anzi li indirizza verso soluzioni di altro genere (già sperimentate o perfezionate nel corso della precedente crisi finanziaria).
In primo luogo, i paesi dell’Eurozona non dispongono più della sovranità monetaria – che è stata trasferita al livello dell’Unione, con la creazione della moneta unica e della Banca Centrale Europea. Ed anche la sovranità fiscale è soggetta a vincoli rilevantissimi (in particolare, quelli derivanti dal Patto di stabilità e crescita).
In secondo luogo, le istituzioni cui la sovranità monetaria è stata “ceduta” non sono affatto neutre quanto alle opzioni di politica economica ammissibili e concretamente sperimentabili. Tutt’altro: il sistema di regole risulta innervato da una specifica opzione di carattere ideologico, ciò che rende più complicato ed impervio adattare le risposte macroeconomiche alle esigenze imposte dalla crisi pandemica. Sotto questo profilo, tale crisi ha definitivamente portato allo scoperto questa opzione ideologica (“il re è nudo!”).
L’idea che sta alla base di tutto il costrutto dell’unione monetaria è che la moneta sia un bene fondamentalmente scarso, un mezzo (di scambio) che ha il compito di rispecchiare una quantità di ricchezza predefinita, quella effettivamente presente e scambiata in un determinato momento storico. Secondo questa lettura, il denaro non può essere “creato dal nulla”, perché la sua quantità deve essere mantenuta coerente con il valore (limitato) che esso denaro deve rappresentare e mediare. Pertanto, entro queste coordinate concettuali il compito della banca centrale (cui è riservato il potere di creare moneta) è quello di adeguare convenientemente la quantità di moneta disponibile (cd. “Teoria quantitativa della moneta”) al valore complessivo della ricchezza prodotta, senza però che la creazione di moneta abbia da svolgere alcun ruolo in vista della creazione/accrescimento di tale ricchezza. Secondo questa lettura, infatti, un eccesso di moneta determinerebbe solo un suo deprezzamento (un calo della sua capacità di rappresentare e mediare il valore), con conseguente aumento dell’inflazione. Così che la sola missione della politica monetaria è appunto individuata – entro dette coordinate teoriche – nel mantenimento della stabilità dei prezzi (cioè, nella conservazione del valore della moneta, della sua capacità di rispecchiare in modo stabile il valore della ricchezza disponibile). Ed in effetti, se si vanno a guardare i Trattati dell’Unione si può agilmente verificare che la stabilità dei prezzi costituisce il primario obiettivo della sua politica monetaria e di cambio [Secondo l’art. 119, par. 2 del TFUE, la politica economica dell’Unione e degli stati membri “comprende una moneta unica, l’euro, nonché la definizione e laconduzione di una politica monetaria e di una politica del cambio uniche, che abbiano l’obiettivo principale di mantenere la stabilità dei prezzi”], nonché l’obiettivo specifico dell’azione del Sistema delle banche centrali (con la BCE al suo vertice) [Secondo l’art. 127, par. 1 del TFUE “L’obiettivo principale del Sistema europeo di banche centrali, in appresso denominato «SEBC», è il mantenimento della stabilità dei prezzi”]. Di conseguenza, alla BCE è formalmente vietato ogni e qualsiasi intervento di politica monetaria che si configuri (nei termini già illustrati più in alto) come “creazione di moneta” in conseguenza di una iniziativa (e di una esigenza) dei governi (la “collaborazione”, o il “matrimonio” di cui sopra), per assicurare loro liquidità e capacità di spesa ulteriori a quelle determinate dalla rispettiva capacità fiscale. Su questo punto, come noto, i trattati sono perentori [Secondo l’art. 123 del TFUE, infatti, “Sono vietati la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della Banca centrale europea o da parte delle banche centrali degli Stati membri (in appresso denominate «banche centrali nazionali»), a istituzioni, organi od organismi dell’Unione, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali”]. Pertanto, se i governi degli stati membri intendono procurarsi mezzi per sostenere spese al di là delle rispettive capacità fiscali, possono farlo solo ricorrendo alla intermediazione dei mercati finanziari: ciò che rende giuridicamente illegittima (nel contesto dell’eurozona) la forma di intervento macroeconomico che attualmente va per la maggiore (altrove) per porre rimedio agli effetti economici della pandemia (i.e. la monetizzazione).
Non è questa la sede per approfondire le implicazioni teoriche della diversa tesi (in base alla quale, invece, la monetizzazione ha da svolgere un ruolo specifico e rilevante, come strumento di politica macroeconomica). Basterà ricordare che, se da un punto di vista istituzionale, gli assunti della moneta come merce “scarsa” (che rispecchia ex post un certa quantità definita di valore) sono venuti meno con l’abbandono della convertibilità dollaro/oro nel 1971, e con il conseguente passaggio alla moneta a corso legale (o moneta fiat), sul piano teorico è anzitutto Keynes ad aver chiarito il contributo assolto dalla spesa pubblica (anche di quella finanziata per via monetaria) ai fini della creazione di ricchezza, da integrarsi con teoria della produzione di valore di Sraffa (Cesaratto, 2019).
Il fatto che la teoria quantitativa della moneta (il denaro come “bene scarso”) sia innervata nel sistema giuridico ed istituzionale dell’Unione, e dell’eurozona in particolare, lo si può notare facendo riferimento non solo agli interventi vietati (la monetizzazione del disavanzo), ma anche a quelli concretamente disponibili o che vengono attualmente messi in campo per fronteggiare la pandemia. Tutti questi strumenti (il MES; lo schema aggiuntivo di finanziamento della integrazione guadagni: il cd. SURE; il Recovery Fund, alla cui creazione il Consiglio europeo del 23 aprile ha convenuto di voler lavorare) si caratterizzano per il fatto di avere come base di finanziamento dei fondi alimentati dagli Stati membri, e quindi mediante il ricorso al mercato. Anche i cd. corona-bond – una versione aggiornata alla pandemia di uno strumento a lungo discusso e mai adottato: i cd. euro-bond – che pure sono stati respinti in sede di eurogruppo in ragione della contrarietà di alcuni paesi ad effetti di mutualizzazione del debito e di trasferimenti fiscali indiretti (per altro in linea con le previsioni dei trattati) – sono stati concepiti come titoli di debito collegati ad una ampliamento del bilancio dell’Unione (da finanziarsi dunque con i contributi degli stati membri, ergo ancora una volta mediante il ricorso la mercato).
3. L’Unione al bivio. La pandemia innescata dalla diffusione del Covid-19 rappresenta, dunque, un poderoso “stress test” per il modello economico incorporato dall’euro, che si rivela estremamente rigido, essenzialmente ideologico, e quindi inadeguato a fronteggiare in modo pragmatico le conseguenze economiche della pandemia. Se la monetizzazione dei disavanzi pubblici dovesse rivelarsi l’unica strada effettivamente percorribile al fine di riavviare le economie prostrate dal prolungato blocco delle attività produttive, ciò significa che l’eurozona non potrà restare uguale a se stessa. Il gioco politico che si sta dipanando in queste settimane costituisce, in effetti, il tentativo di questo modello economico (per come depositato nelle norma primarie dell’ordinamento dell’Unione) di resistere ad una evoluzione imposta dall’urgenza e dalla profondità della crisi, o quantomeno di ritardarne gli esiti. Tutti gli osservatori sono perfettamente consapevoli che l’unica via d’uscita (che non passi per la deflagrazione dell’area euro) consiste nell’adozione di politiche di monetizzazione dei debiti degli stati membri da parte della BCE, così come sono consapevoli che – oltre alla mancanza di consenso politico tra questi stati – vi sono specifici vincoli legali che si frappongono all’adozione di queste soluzioni.
Resta da vedere quale direzione prenderà questa evoluzione. Una maggiore integrazione (su basi ideologiche differenti) è una strada teoricamente percorribile, ma non è affatto detto che lo sia anche da un punto di vista politico: le profonde divisioni registrate tra paesi come la Germania e l’Olanda (ma non solo) da una parte, e altri come l’Italia, la Spagna o la stessa Francia, dall’altra, sono lì a testimoniarlo. E d’altra parte sotto i colpi della crisi la strada di una maggiore integrazione non appare più una via obbligata, né l’unica percorribile.
Per altro, un cambio di rotta non significherebbe solo annettere alla “cassetta degli attrezzi” della politica economica comune alcuni utensili fino a ieri ritenuti del tutto inaccettabili, ciò che comporterebbe abbandonare una versione ideologizzata del quadro degli strumenti macroeconomici disponibili, per abbracciarne una più laica, e come tale più disponibile ad un uso più pragmatico e – quindi – anche caratterizzato da margini più ampi di discrezionalità decisionale. Insomma, il tramonto dell’idea che la politica economica si possa fare mediante l’imposizione di regole rigide e precostituite. Esso avrebbe un significato, ed un effetto politico molto più rilevante. Una volta compiuto questo passo, infatti, occorrerebbe (prima o poi) spiegare all’opinione pubblica per quale ragione sono stati ritenuti accettabili tassi di disoccupazione del 10, 15 o del 20% – quali si registrano da anni in alcuni paesi dell’eurozona – invece di considerarli quali vere e proprie emergenze sociali, tali da giustificare pienamente l’adozione di politiche di quel medesimo segno. Occorrerebbe anche spiegare per quale ragione si sia preferito seguire l’impostazione delle politiche inscritte nei Trattati, o in una loro versione deteriore (come nel caso del trattato del MES), per fronteggiare la crisi finanziaria venuta a maturazione in Grecia nel 2010, imponendo (anche contro l’esplicita volontà popolare) ricette che hanno determinato la distruzione della capacità produttiva di quel paese, l’aumento vertiginoso della disoccupazione e della povertà, la deflazione salariale, la denutrizione infantile e (in certi casi) la morte per fame; per non parlare del disastro sotto il profilo sanitario.
Il bivio che l’Unione (e l’Eurozona, in particolare) ha di fronte non è un passaggio facile, né indolore; non soltanto potrebbe imporle un cambio di paradigma (niente affatto scontato, anzi); ma anche perché questo medesimo passaggio la costringe a fare i conti con il suo più recente passato.
* Professore associato di diritto amministrativo – Università di Perugia. Il saggio è in corso di pubblicazione nel volume “Andrà tutto bene. Confronti a distanza sulla pandemia da Covid-19”, a cura di (F. Randazzo), ed. Libellula, Lecce.