Recessione economica e austerità fiscale non vanno d’accordo. È un assunto su cui ormai c’è un largo consenso. Tutti gli Stati colpiti dagli effetti economici del Covid-19 si apprestano, infatti, ad allentare di parecchio i cordoni della borsa pubblica per spendere quanto necessario al fine di risollevare la produzione e l’occupazione.
Si tratta di un mutamento di rotta per certi versi sconcertante se si considera che sono scelte di politica economica prive di supporto teorico da parte del pensiero economico mainstream: è quasi come se si pretendesse di fronteggiare la pandemia ignorando gli orientamenti maggioritari della scienza epidemiologica e virologica. Ma il punto è proprio questo: la scienza economica “ufficiale”, quella che occupa la gran parte delle cattedre accademiche nel mondo occidentale, sembra non possedere le categorie interpretative e gli strumenti operativi che servono in frangenti come questo.
Provo a riepilogare in quattro punti gli assunti su cui si basano le teorie economiche ortodosse, specialmente quelle monetarie:
a) la spesa pubblica dev’essere limitata dalla quantità di denaro che lo Stato incassa attraverso la tassazione e l’indebitamento;
b) il governo deve cercare di tenere il bilancio in pareggio, almeno nel medio termine, così da prevenire un aumento insostenibile del debito;
c) le finanze pubbliche devono essere sottoposte all’attenta sorveglianza e disciplina dei mercati finanziari. Sicché, al fine di arginare l’incertezza di mercato e rassicurare i prestatori su potenziali rischi di insolvenza dello Stato, il debito pubblico non deve crescere oltre un livello in cui gli introiti delle tasse non sarebbero sufficienti a sostenere il pagamento degli interessi;
d) ma quel che più conta è che deve assolutamente escludersi che i governi possano ordinare di «stampare moneta» per finanziare il disavanzo di bilancio, perché ciò genererebbe inflazione.
Quanto di questi assunti rimane ancora in piedi? Si prenda in particolare l’ultimo, che li riassume un po’ tutti. In un precedente post ho già accennato al fatto che la Bank of England ha iniziato a finanziare direttamente il deficit spending del governo di Boris Johnson. Andrea Guazzarotti ha ricordato come la Federal Reserve americana stia facendo lo stesso. In entrambi i casi si ricorre senza remore a uno strumento che è messo a disposizione dall’ordinamento giuridico vigente. Ad esempio, nel caso del Regno Unito si è esercitato il Treasury Reserve Power previsto dalla Section 19 del Bank of England Act del 1998, cioè della legge che disciplina il rapporto tra esecutivo e central banking, in base alla quale «the Treasury, after consultation with the Governor of the Bank, may by order give the Bank directions with respect to monetary policy if they are satisfied that the directions are required in the public interest and by extreme economic circumstances».
Il senso di questa norma è chiaro: se serve e nella misura in cui serve, la politica monetaria deve assecondare la politica fiscale, anche facendosi carico interamente delle nuove esigenze di spesa ed emettendo perciò moneta all’uopo. In questo modo si conseguono due obiettivi: si bypassano i mercati finanziari e quindi il rischio che questi, dovendo scegliere tra i titoli di debito di più Stati offerti in concorrenza, facciano lievitare troppo il tasso d’interesse; e, soprattutto, poiché il fabbisogno governativo di spesa viene direttamente monetizzato dalla banca centrale, non si accresce lo stock di debito nazionale per effetto dei consistenti disavanzi di bilancio che si prevedono di realizzare.
E l’inflazione? È questa l’obiezione della teoria economica ortodossa, che difatti storce il naso di fronte alle prospettive di monetizzazione del debito, muovendo dal postulato che il livello dei prezzi dipenda dalla quantità di moneta emessa. Ma l’esperienza degli ultimi anni ne ha rivelato l’infondatezza: dappertutto le banche centrali, ivi compresa la BCE, hanno adottato programmi mastodontici di QE, “pompando” moneta nel sistema bancario in quantità enorme, eppure non c’è stata nessuna ripresa dell’inflazione e in Europa siamo ben lontani dall’essere in prossimità di quel 2% che è indicato dal Trattato come inflation target della politica monetaria. Ancora non abbiamo verità scientifiche obiettive su tutte le cause dei fenomeni inflazionistici. Ma una cosa pare certa: che i prezzi sicuramente aumentano se le attività economiche si “surriscaldano” e si raggiunge il pieno impiego dei fattori produttivi, cioè quando la piena occupazione (traguardo dal quale siamo lontanissimi) induce la pretesa nella classi lavoratrici di aumenti salariali e quando la domanda di beni e servizi eccede la loro offerta, ossia la capacità di produrli. Insomma, se alle politiche fiscali e monetarie espansive dovesse seguire un rincaro dei prezzi, questo sarà dipeso dalla crescita della produzione, dei consumi, degli investimenti e dell’occupazione, e non dal mero incremento della quantità di moneta. E quando ciò accadrà sarà fisiologico e per certi versi salutare, ché una moderata inflazione è sempre preferibile alla deflazione.
Per quanto riguarda l’Eurozona, la sua architettura istituzionale, com’è noto, riflette gli assunti della teoria economica ortodossa: e difatti, l’art. 123 del TFUE vieta alla BCE di finanziare il disavanzo di bilancio degli Stati membri. Perciò le politiche fiscali espansive dovranno finanziarsi attingendo a prestiti degli investitori istituzionali e/o delle famiglie (come alcuni propongono di fare in Italia), coll’effetto di incrementare lo stock di debito nazionale. Il PEPP varato dalla BCE, cioè il programma di acquisto dei titoli statali nel mercato secondario, diversamente dai programmi seguiti dalla Bank of England e dalla Fed, non è una monetizzazione del debito, sicché non potrà impedire che questo cresca vertiginosamente, con quel che ne deriverà allorquando a seguito del ripristino del Patto di Stabilità e Crescita saremo nuovamente costretti a dolorose e recessive politiche di austerità fiscale (ben più di quanto lo siano state finora, considerato il prevedibile aumento della spesa per interessi e la conseguente necessità di contrarre ulteriormente la spesa pubblica primaria).
A ben vedere, la partita sul Recovery Fund si gioca proprio sul dilemma se monetizzare o mettere a debito il deficit spending di taluni Paesi. C’è chi, come gli Stati del Nord Europa, propone che le risorse che andranno a costituire il Fondo siano erogate agli Stati in forma di prestito e c’è invece chi, come l’Italia, auspica che siano attribuiti in forma di sovvenzioni, onde evitare, per l’appunto, l’accumulazione di debito ulteriore. Le stesse divisioni si riflettono nel dibattito sulle modalità di finanziamento del Fund: a chi ritiene che debba essere agganciato al Quadro Finanziario Pluriennale, con un incremento dell’entità dei trasferimenti nazionali di risorse al bilancio europeo, si contrappone chi pensa che il suo finanziamento debba avvenire emettendo bond europei: e in questo secondo caso è evidente che se si prevede che tali obbligazioni siano acquistate direttamente dalla BCE anziché nei mercati finanziari, nella sostanza sarebbe qualcosa di assai prossimo alla monetizzazione dei fabbisogni di spesa.
Insomma, l’alternativa è se l’Eurozona debba finalmente iniziare (perlomeno) a imboccare la strada che porta alle politiche economiche che servono nelle fasi di grave emergenza (e non solo) e che le costituzioni e le leggi di altri Paesi già mettono a disposizione o se si debba rimanere legati al palo di logiche superate e controproducenti. Se – come si spera – si opta per la prima via, occorre farlo in fretta, perché il debito nel frattempo continua a crescere.