L’epidemia del 2020 porta con sé un incremento notevole delle conoscenze e delle pratiche digitali. È uno dei pochi effetti positivi, ma spero che ciò non generi uno sfinimento della didattica in presenza (delle persone).
L’istruzione è uno dei tre grandi diritti sociali. Si tratta di diritti a ricevere prestazioni e sono molto costosi. Essi non possono essere soddisfatti se non grazie ad un’immediata e specifica azione dei pubblici poteri. I principali sono in ordine di costo: il diritto alla previdenza, vale a dire alla pensione, quello alla salute e l’istruzione. Paghiamo le imposte innanzitutto per finanziare questi diritti.
Il bilancio dello Stato italiano per il 2019 è di circa 645 miliardi, al netto dei ratei del debito pubblico. È una cifra imponente che viene spesa più o meno in questo modo: circa 293 miliardi per le pensioni, 114 per la sanità e 66 per l’istruzione, purtroppo in decrescita rispetto agli anni precedenti. Per avere un termine di paragone il bilancio del Ministero della Difesa, ovvero le armi, le navi, i carri armati, 150.000 stipendi, è di circa 21 miliardi, meno di un terzo di quello dell’istruzione. I dipendenti della pubblica istruzione sono un milione. È un apparato enorme, ma ampiamente giustificato: la scuola è fatta soprattutto di persone. Le scuole di ogni ordine e grado, università comprese, sono presenti dappertutto.
Quello dei costi è il problema dei problemi dei diritti sociali, ma non ci sono ricette miracolistiche a meno di non voler ledere i contenuti essenziali dei diritti stessi. Certo infinitamente più economico sarebbe videoregistrare una unica lezione universitaria e inviarla a tutti gli studenti del Regno. Finalmente potremmo vivere in un mondo senza professori universitari, tranne uno. Ma un mondo siffatto non è per me desiderabile, ma cosa ben più importante, non è conforme a Costituzione né ai principi del pluralismo. Bisogna ragionare sui costi, razionalizzare e limare, ma nella consapevolezza che per far vivere il contenuto essenziale dei diritti sociali non si può fare a meno di un sistema fiscale progressivo come, oserei dire ovviamente, prevede l’art. 53 della Costituzione.
I numeri non sono incomprensibili, finanche del bilancio dello Stato si può capire qualcosa pur non possedendo competenze specifiche. I documenti originali sono molto complessi, ma esistono tantissime sintesi e semplificazioni ben fatte. D’altra parte, lo stesso Ministero dell’economia e finanze (MEF) pubblica una versione semplificata del bilancio dello Stato, facile da intendere. Nella maggior parte degli Stati dell’Europa occidentale le cose vanno più o meno allo stesso modo. C’è poi un sistema di istruzione, quello degli Stati Uniti, prevalentemente privato, ma ora è in crisi e si sta orientando verso il pubblico. L’Italia non è un’eccezione, i nostri stanziamenti per l’istruzione, in percentuale sul nostro PIL, sono inferiori a quelli della Germania o della Francia, ma non bisogna enfatizzare troppo queste differenze che pure vi sono, altrimenti iniziamo il pianto greco dell’Italia che non va. Siamo un Paese che ha completamente sconfitto l’analfabetismo. Siamo uno dei Paesi più istruiti e colti del mondo. Si accettano sfide. Tuttavia, come sempre, i progressi da fare non mancano, ad esempio, in relazione all’analfabetismo di ritorno e a quello funzionale. Ai tempi, c’era un esame di terza elementare con cui si certificava che la persona sapesse leggere, scrivere e far di conto. Adesso l’istruzione serve a fare cose più complicate, deve essere adeguata alla complessità della nostra società. Anche quella di base deve mettere in condizione di assolvere funzioni qualificate. Purtroppo, da questo punto di vista, il nostro si conferma come un Paese fortemente dualistico nel quale il Mezzogiorno resta molto distante dal Nord, con alcuni casi estremi del tutto emblematici. La questione meridionale caratterizza profondamente il nostro sistema dell’istruzione.
Grazie alla specialità della Regione, i flussi finanziari in Sardegna non sono trascurabili, ma nonostante ciò sono riscontrabili dati allarmanti sull’abbandono scolastico. I ragazzi che lasciano la scuola dopo quella dell’obbligo senza conseguire un titolo successivo in Sardegna sono il 21%, troppo. La media italiana è al 14%, le migliori Regioni sono al 5-6%. La Sardegna è la Regione con il maggior tasso di abbandono scolastico in Italia. E come le altre Regioni del Mezzogiorno, è molto indietro anche con gli asili nido e con la scuola dell’infanzia, con effetti negativi, tra l’altro, sulle possibilità di lavoro delle donne, perché, naturalmente, se non vi è possibilità di affidare i bambini è difficile lavorare.
Un tasso così alto di abbandoni, un terzo in più rispetto alla media nazionale, deriva da una molteplicità di fattori specifici della regione come le sue caratteristiche orografiche. Ma con altrettanta certezza tutto è condizionato dalla particolare ristrettezza del mercato del lavoro. La verità è che nel Mezzogiorno l’istruzione, in particolare quella tecnica, non promette sbocchi lavorativi. La scarsa offerta di lavoro qualificato induce una altrettanto scarsa domanda di istruzione qualificata: è un circolo vizioso che deve essere interrotto. La scuola deve rendere più aderente la sua offerta formativa alla società anche nel Sud, soprattutto in riferimento agli istituti tecnici, che, come nel resto del Paese, raccolgono circa il 60 % degli studenti iscritti. Il rapporto tra scuola e lavoro da un fattore di debolezza deve essere trasformato in un punto di forza. Ad esempio, in Sardegna non c’è un ITS dedicato all’ informatica. Ma non si tratta solo di questo.
Il vero e grande interrogativo che ai giovani oggi deve essere posto riguarda le ragioni dello studio: il perché è importante studiare. Non so se la scuola riesca a trasmettere questo semplice concetto: studiare, oltre che a trovare lavoro, serve a capire di più, ad esercitare la comprensione. La passione a capire caratterizza gli umani: Ulisse era curiosissimo. Esistiamo per capire. Finanche il successo dei quiz televisivi può essere spiegato in questa chiave. Quale è il gioco? Rispondere, dunque, sapere.
Le fonti della conoscenza sono principalmente due: l’esperienza e lo studio. Naturalmente esse si mescolano in proporzioni diverse a seconda delle società e delle fasi storiche. Nel senso che nelle società statiche, tradizionali, l’esperienza è la principale fonte di conoscenza, ma man mano che le società sono diventate più dinamiche e complesse, lo studio è diventato sempre più importante, senza negare tuttavia l’importanza dell’esperienza. Capire di più. Per capire di più il cervello deve essere nutrito di sapere, allenato e in ordine, quindi nessuna indulgenza verso fattori di turbativa, dalle droghe ai sentimenti malevoli, l’invidia, l’odio, il risentimento che tendono a rinchiudere l’anima e il cervello nelle buie strettoie dell’istinto. Un tempo si pensava che le cosiddette droghe leggere potessero portare libertà e piacere, adesso si è capito che, come le altre, portano soltanto sofferenza e dipendenza. Il cervello per capire di più deve essere libero, non deve essere condizionato. La nostra unica droga dev’essere il capire, il divertimento che la comprensione porta con sé.
L’istruzione è un diritto della persona ma è anche un interesse della collettività. Queste parole sono utilizzate dalla Costituzione per il diritto alla salute, ma vanno benissimo anche per il diritto all’istruzione e sono bellissime. Il progresso della persona è anche un interesse della collettività, le due cose coincidono. Le democrazie, lasciata alle spalle la Controriforma, lo hanno ben capito.
Adesso, dicevamo, le cose si sono complicate. Perché da tempo la scuola ha perso il monopolio della formazione, prima con l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa, e adesso, naturalmente ancora di più, con la Rete. Spesso si dice “c’è una vita reale e una vita digitale”. Non credo sia così. La vita è una sola, ma ormai è un mix, ci sono un aspetto fisico e uno digitale dell’esistenza, le due cose si mescolano e fanno un tutto inscindibile. Noi siamo in parte fisicità e in parte digitalità. Non è neppure ipotizzabile una vita senza la Rete, ma la Rete è anche un luogo pieno di insidie, di problemi, di soggetti che hanno posizioni di monopolio nella costruzione delle preferenze di ciascuno di noi. Quando siamo sulla Rete sembra che tutti abbiano la nostra medesima opinione. Incontriamo solo affinità, in realtà la Rete preseleziona, è il fenomeno della cosiddetta bubble filter, la bolla che filtra opinioni, risposte, interessi, crea coincidenze. Il mondo della Rete oggi è il mondo che ci consente di lavorare, conoscere, manifestare il nostro pensiero, ma la Rete costruisce anche le opinioni, costruisce la vita delle persone. Anche in Italia il 40% delle relazioni stabili tra un uomo e una donna nasce attraverso Internet. È stata una realtà a lungo negata, nel senso che ammetterla sembrava ascriversi a un mondo minore e marginale, privo di reali capacità relazionali, ma pian piano questo dato sta emergendo alla consapevolezza comune: ormai è la vita.
La distanza sociale dovuta alla pandemia, accentuerà le vicinanze virtuali. Tutto questo è potuto succedere nel giro di pochissimi anni perché l’algoritmo, cioè una operazione matematica, seleziona le persone affini, anzi meglio preseleziona le persone con le quali potenzialmente potremmo interagire ed avere un rapporto stabile. Un range di età e la vicinanza dei luoghi per facilitare gli incontri, sono i primi elementi di questo processo di ricerca. Stesse passioni, stesse preferenze culturali, alla fine la rete vi propone persone “giuste”. Questo fenomeno mi scandalizza molto poco: all’ epoca dei miei nonni i matrimoni combinati erano la norma. Degli intermediari, tra cui le famiglie stesse, “combinavano” i matrimoni. Allora fuori dal raggio di pochi chilometri non si conosceva nessuno. Adesso il fenomeno dei “matrimoni portati” si è spostato in Rete: è la Rete ad essere diventata il Grande Intermediario. L’ossessione di oggi è sapere come si fa ad essere simpatici all’algoritmo.
Come accennato, in passato la formazione delle persone avveniva attraverso due grandi canali: l’istituzione scolastica e l’esperienza della vita fatta di diversi luoghi la famiglia, i partiti politici, i sindacati, i corpi intermedi, le formazioni sociali. Da ultimo ha fatto prepotente irruzione la Rete e per essa i suoi grandi operatori, Google, Apple, Amazon e gli altri. Se continuassimo a seguire esclusivamente lo schema tradizionale che vede da un lato l’istruzione formalizzata con i suoi programmi e i suoi titoli di studio e dall’ altro l’esperienza della vita, Internet dovrebbe essere necessariamente compresa nel novero di quest’ultima. Tuttavia, se tale distinzione conserva una sua validità in relazione alla coppia formalità-informalità, si pensi soltanto all’obbligo scolastico e alla spontaneità di molte acquisizioni digitali, essa ha sicuramente perso qualsiasi capacità esplicativa di ordine generale. Soprattutto non dà conto del fatto che la Rete è un potere forte, anzi fortissimo di formazione e di istruzione. Più della scuola? Forse. Di sicuro tra essi vi è una differenza fondamentale. Mentre il sistema formale dell’istruzione, almeno nelle democrazie, nasce dalle leggi, è trasparente, ed è, quindi, sottoposto costantemente alla verifica della legittimità e della legittimazione, la Rete si configura come un potere di fatto, opaco e sfuggente. Scontato che la scuola deve utilizzare e insegnare Internet, credo anche che scuola e Internet debbano conservare un adeguato grado di distinzione e alterità.
Lo spazio digitale dispiega uno straordinario e tendenzialmente assorbente potenziale formativo. Ma il pluralismo è il pilastro della democrazia. Bisogna ricercare e valorizzare tutti i bilanciamenti possibili allo strapotere tendenzialmente assorbente di Internet. Sicuramente il sistema scolastico deve essere uno dei soggetti di tale bilanciamento. Il pluralismo a mio modo di vedere è un valore fondante, ma è anche un obbligo costituzionale. La nostra esistenza è ormai impensabile senza i media digitali. Come accennato, è importante che anche nella scuola essi vengano utilizzati per sviluppare nuove opportunità di apprendimento ma soprattutto per implementare le capacità di utilizzare consapevolmente le tecnologie. Da alcuni studi OCSE (OCSE (2015) Students, Computers and Learning: Making the Connection, a cura di Andreas Schleicher e Francesco Avvisati, PISA, OECD Publishing, analizzato nel rapporto del MIUR (2015) “Studenti, computer e apprendimento: dati e riflessioni”), infatti, risulta che i “nativi digitali” sono mediamente molto abili nell’uso delle nuove tecnologie, ma non ne fanno affatto un uso responsabile. Essi sono esposti a molti rischi, come la dipendenza (patologica) da Internet, l’uso improprio dei dati, la violazione della privacy, il Cyberbullismo, le molestie online. È, dunque, fondamentale che l’istituzione scolastica supporti i giovani nell’uso critico della rete al fine di imparare a valutarne i contenuti e riconoscerne i pericoli. Secondo il rapporto del MIUR Studenti, computer e apprendimento del 2015, gli studenti italiani sono lost in navigation rispetto ai loro coetanei OCSE, in quanto non hanno «la capacità di dirigere la propria lettura, di dare giudizi sulla pertinenza di una pagina, sulla qualità di un’argomentazione». Secondo il rapporto del MIUR, in Italia il 15% degli studenti è del tutto “senza bussola” quando naviga sul web (rispetto a una media OCSE dell’11,6%); inoltre, con riferimento alla “qualità della navigazione”, più del 75% di loro o non conduce alcuna attività di navigazione oppure conduce una navigazione “non orientata” o “insufficiente”, mentre solo il 24,6% conduce una “navigazione principalmente orientata” (Classifica degli studenti in base alla qualità della navigazione – PISA 2012). Anche i dati richiamati, dunque, mostrano la necessità che la scuola si ponga quale luogo alternativo allo strapotere della rete. Per farlo è necessario che le istituzioni scolastiche tradizionali abbandonino quel pregiudizio filologico che le rende noiose e poco attrattive agli occhi degli studenti. Sebbene la filologia sia il pilastro fondante della comprensione, soprattutto specialistica, se essa si trasforma da premessa in un pervasivo pregiudizio tende a contrapporre il mondo scolastico a quello della vita e della rete, nel quale, al contrario, la più accattivante delle semplificazioni regna sovrana. Ad esempio, la pretesa filologicamente corretta che i nostri studenti leggano romanzi ottocenteschi nelle versioni originali è una garanzia pressoché certa del loro abbandono della lettura.
Nella Rete tutto è conforme. La scuola come contropotere critico deve abituare al ragionamento autonomo, personale, contro il ragionamento e la conoscenza predefinita da altri attraverso la Rete.
La scuola si contrappone al mondo digitale anche per alcuni suoi aspetti strutturali. La scuola è un mondo fisico, ha le sue regole, bisogna svegliarsi e andare a scuola o all’ Università e i professori mettono i voti. È un mondo diverso. La scuola deve mantenere intatte le sue caratteristiche di fisicità, di diretta interazione tra persone. Questa sua peculiarità un tempo scontata, oggi non è più così certa. La didattica in presenza appare una sua straordinaria caratteristica che la rende particolarmente idonea all’ esercizio di una essenziale funzione pluralistica. La scuola non è più il monopolista della formazione, ma si configura e deve essere il bilanciamento della critica culturale allo strapotere della Rete.