di Marco Dani e Agustín José Menéndez
Il prossimo 23 Aprile il Consiglio europeo dovrebbe decidere con quali strumenti sarà possibile finanziare la ricostruzione delle economie europee dopo lo shock causato dall’epidemia Covid-19. Le controverse conclusioni dell’Eurogruppo del 9 Aprile hanno dato inizio ad una nuova fase di negoziati tra i governi nazionali che, come prevedibile, è accompagnata da un dibattito politico tanto vivace quanto confuso in cui non è sempre agevole comprendere sia la natura degli strumenti in discussione che la loro effettiva praticabilità politica e giuridica.
Può quindi essere utile disporre di un breve glossario in cui si descrivono in modo sintetico le caratteristiche dei principali strumenti in discussione. Come si vedrà, questi ultimi hanno un’identità piuttosto precisa ed implicazioni politiche ed economiche molto diverse. E’ perciò del tutto normale e, anzi, auspicabile che si discuta anche energicamente in merito alla scelta degli strumenti che si intendono impiegare. Altrettanto auspicabile sarebbe che tale discussione si svolgesse a partire da una descrizione il più possibile obiettiva delle possibili opzioni in campo.
Il modo più ovvio di affrontare uno shock come quello in corso è ricorrere, almeno inizialmente, al debito pubblico statale. Già all’inizio della crisi Mario Draghi ha autorevolmente indicato nell’indebitamento la via maestra per finanziare la ricostruzione. Di lì a pochi giorni il Consiglio dell’Unione europea si è mosso di conseguenza sospendendo il Patto di stabilità e crescita, ovvero il complesso sistema di norme che in tempi normali è utilizzato per limitare il ricorso al debito pubblico da parte degli stati membri dell’Unione. All’indebitamento stanno ricorrendo tutti gli stati membri, ma in misura notevolmente diversa. Vi sono stati come la Germania che, disponendo di un debito pubblico ridotto e di un surplus commerciale ampio, possono emettere obbligazioni per cifre da capogiro: dopo una prima iniezione di liquidità da 750 miliardi di Euro, sono state annunciate ulteriori emissioni. Vi sono stati come la Spagna che, con un debito pubblico e un debito privato piuttosto elevato, si trovano nella condizione opposta. L’Italia si trova in una situazione intermedia: da un lato dispone di un debito pubblico molto elevato, dall’altro è uno degli stati dell’Unione che dispone di cospicui risparmi privati. Proprio quest’ultima circostanza ha indotto autorevoli politici, commentatori e banchieri a sviluppare proposte dirette ad incentivare fiscalmente l’acquisto di titoli di debito pubblico da parte dei risparmiatori italiani. Questa via autarchica al rifinanziamento sconta almeno tre importanti ostacoli: in primo luogo presuppone una notevole fiducia dei cittadini-risparmiatori nelle scelte politiche di ricostruzione (e quindi anche un programma credibile di medio-lungo periodo sostenuto da un ampio consenso politico). In secondo luogo, è comunque una via che non tutti gli stati dell’Unione possono permettersi e che, quindi, se perseguita rischia di aggravare le divergenze tra le economie europee già esistenti prima della crisi.
Tutte queste ragioni rendono imprescindibile il finanziamento del debito pubblico statale da parte della banca centrale. Questo tipo di interventi era un tabù nel disegno originario dell’unione economica monetaria. Durante la scorsa crisi, tuttavia, la Banca Centrale Europea (BCE) si è trovata nella condizione di dovere svolgere nei fatti il ruolo del compratore di ultima istanza del debito pubblico degli stati dell’Eurozona. Dopo alcune esitazioni iniziali, la BCE si è mossa in questa direzione attraverso il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP), un piano di acquisti di titoli di debito pubblico e di obbligazioni private per un ammontare massimo di 750 miliardi di Euro, che si aggiunge al programma di Quantitative Easing 2 incentrato sui titoli pubblici. Il volume totale degli acquisti previsti per il 2020 si aggira attorno ai 1000 miliardi di euro. Gli acquisti del PEPP non sono sopposti a nessuna condizionalità e non devono rispettare rigidamente il cosiddetto capital key, le quote di ciascun stato membro nell’azionariato della BCE. Allo stato attuale questo tipo di interventi è quello che sta offrendo il contributo decisivo alla sopravvivenza non soltanto dell’unione monetaria, ma anche delle economie europee. Tuttavia, si tratta di strumenti piuttosto precari per tre ragioni. Anzitutto, si tratta di interventi limitati nel tempo perché il PEPP durerà fino alla fine dell’anno, forse anche oltre se l’epidemia dovesse perdurare. In secondo luogo, si tratta di strumenti con un limite quantitativo massimo che, in un contesto contrassegnato da una notevole incertezza, potrebbero rivelarsi insufficienti ad assorbire la somma complessiva del debito pubblico in scadenza (rolled over) e di quello in via di nuova emissione. Infine, un’ulteriore espansione del QE2 potrebbe incontrare ostacoli di ordine giuridico, economico e politico.
Dal punto di vista economico, il finanziamento del debito pubblico della banca centrale non può costituire uno strumento di intervento strutturale non tanto per il rischio di inflazione (allo stato attuale pressoché inesistente), ma perché implicherebbe l’immissione nel mercato di quantità ingenti di moneta non corrispondenti all’effettiva ricchezza prodotta (il cosiddetto capitale fittizio), creando così i presupposti per future crisi economico-finanziarie. Dal punto di vista giuridico, il Quantitative Easing si pone in tensione, se non con la lettera, almeno con lo spirito dell’art. 123 TFUE, la norma del trattato che vieta alla BCE di acquistare direttamente titoli di debito pubblico nazionale. A tal riguardo, è sempre bene ricordare che il precedente programma di Quantitative Easing (PSPP) è tutt’ora sub iudice di fronte al Tribunale Costituzionale tedesco la cui pronuncia è attesa per il 5 maggio. Infine, il finanziamento della BCE è problematico anche dal punto di vista politico perché, attribuendo nei fatti ad una istituzione indipendente e, quindi, democraticamente non responsabile il potere di vita o di morte su uno stato membro, pone le basi per pesanti condizionamenti sulle politiche economiche e sociali nazionali.
Un’altra possibile fonte di finanziamento per gli stati membri è costituita dal famigerato MES (Meccanismo europeo di stabilità). Le caratteristiche ed il funzionamento di questo strumento di assistenza finanziaria sono state spiegate in un precedente articolo a cui rinviamo. In questa sede è utile invece chiarire un aspetto del dibattito attuale che continua ad essere trascurato. L’Eurogruppo ha deciso (ma la decisione allo stato attuale non è ancora stata formalizzata in un atto giuridico vincolante) un doppio binario di accesso volontario al MES. Si è anzitutto confermato che l’assistenza finanziaria per spese diverse dalle spese sanitarie continui ad essere sottoposta al regime ordinario che prevede una rigorosa condizionalità (ovvero ossigeno finanziario in cambio di sovranità economica). Si è poi prevista (e su questo si concentra il dibattito) una linea di finanziamento precauzionale per le spese sanitarie dirette e indirette connesse all’epidemia sottoposta solo ad un vincolo di destinazione (Pandemic Crisis Support). Sarebbe così possibile attingere ad un quantitativo cospicuo di risorse (per l’Italia si tratterebbe di circa 36 miliardi di Euro) che potrebbe altresì aprire la strada all’Outright Monetary Transactions Programme (OMT), un programma di acquisti illimitato di titoli di debito pubblico da parte della BCE che richiede la preventiva attivazione del MES.
Come per ogni ghiotta offerta, è bene però leggere attentamente le clausole scritte in piccolo. Anzitutto, i debiti contratti con il MES sono assistiti da privilegio; una richiesta di attivazione del MES avrebbe perciò l’effetto di declassare il resto del debito pubblico, con possibili ripercussioni negative sui tassi di interesse. Inoltre, la sospensione del Patto di stabilità non sarà illimitata e l’Eurogruppo ha già stabilito che al termine dell’epidemia (che non soltanto non sappiamo quando finirà, ma soprattutto quando si considererà finita ai fini della riattivazione della “normale” governance economica europea) gli stati membri saranno tenuti a conformarsi a tutti i vincoli macroeconomici previsti prima di questa crisi. Con tutta probabilità, molti stati membri non saranno in grado di rispettare immediatamente quei parametri, con conseguenze di tutto rilievo. Le norme del MES riguardanti l’assistenza finanziaria precauzionale (in particolare, l’art. 7(2)) prevedono infatti che se gli impegni originari assunti dallo stato beneficiario (quindi, la condizionalità light) risultassero inadeguati a far fronte alla situazione finanziaria successiva, il MES potrebbe decidere di chiudere la linea di credito ed invitare lo stato ad aderire un programma di aggiustamento macroeconomico, ovvero ad uno di quei programmi già sperimentati con esiti altamente discutibili nel corso della precedente crisi finanziaria in Grecia, Spagna e Portogallo. Non serve essere troppo prevenuti per capire che, in un contesto complessivo di difficoltà finanziarie come quello che ci attende al termine dell’epidemia, il margine di manovra degli stati sarà estremamente ridotto. Insomma, più che trovarci di fronte ad un semplice invito, potremmo doverci misurare con un’offerta che non si può rifiutare.
Veniamo quindi agli Eurobond, ovvero agli strumenti finanziari su cui più ha insistito il governo italiano assieme ad altri otto governi degli stati membri. Di che cosa si tratta? Anche qui la confusione regna sovrana, perché sotto all’etichetta si celano strumenti molto diversi. Nel 2011, per esempio, la Commissione europea pubblicò uno studio di fattibilità in cui si esaminavano almeno tre tipi diversi di stability bond, ovvero di obbligazioni sovrane dirette al finanziamento ordinario degli stati dell’area euro. Per espressa ammissione di quello studio, l’attivazione di quegli strumenti era resa particolarmente ardua dalla no bail-out clause (art. 125 TFUE), la norma del trattato che preclude la mutualizzazione del debito, e dall’assenza di una base giuridica ad hoc nei trattati (si ipotizzava il ricorso alla clausola di flessibilità di cui all’art. 352 TFUE, che però prevede il requisito dell’unanimità). Inoltre, rimanevano da risolvere questioni solo all’apparenza di natura tecnica quali l’individuazione della legge applicabile agli Eurobond e del tribunale competente a dirimere le eventuali controversie.
Nell’attuale dibattito, tuttavia, non si discute dell’emissione congiunta di obbligazioni diretta a condividere il debito pregresso degli stati membri. Tutta la discussione verte invece sull’istituzione di strumenti straordinari di debito per far fronte alle maggiori spese imposte dalla crisi in corso. A questo riguardo, molte sono le proposte in campo, ma soprattutto due meritano di essere esaminate. Vi sono da un lato coloro che propongono l’emissione congiunta da parte degli stati membri di obbligazioni a cedola fissa e a lunga scadenza garantite congiuntamente dagli stati membri. Qualora tali obbligazioni non dovessero essere acquistate nel mercato, al loro acquisto provvederebbe la BCE. La ratio sottostante a questo strumento sarebbe quella di distribuire nel tempo il costo di questa crisi in modo da non gravare in maniera insostenibile sulla generazione attuale. Tale proposta si incentrerebbe sui bilanci nazionali, ma conterrebbe anche due importanti elementi di solidarietà europea: la garanzia congiunta degli stati membri e l’eventuale intervento (come compratore d’ultima istanza) della BCE. Proprio questi ultimi elementi rendono la soluzione difficilmente praticabile sul piano politico, visto gli stati membri del Nord Europa non sembrano per nulla propensi ad accettare l’idea di una garanzia congiunta dei debiti Covid-19, salvo forse in cambio di una qualche condizionalità (di qui la loro insistenza sul MES). Vi è poi una difficoltà sul piano giuridico, poiché non è chiaro se tale soluzione sarebbe compatibile con i vincoli vigenti all’interno dell’Eurozona, in particolare con la no bail-out clause.
Infine, esiste anche l’ipotesi di un’emissione di obbligazioni garantite dal bilancio dell’Unione europea. In una recente proposta che, per certi versi, si avvicina al Recovery Fund ipotizzato nelle Conclusioni dell’Eurogruppo, si è avanzata l’idea di un’emissione una tantum di titoli a lunga scadenza da parte dell’Unione, garantiti dal bilancio europeo e da quelli degli stati membri. Le risorse reperite sui mercati sarebbero redistribuite tra gli stati membri per cofinanziare le spese sanitarie, i sussidi di disoccupazione ed il rilancio dell’economia in proporzione al calo di PIL sofferto da ciascuno stato nella prima metà del 2020. Agli stati membri non sarebbe quindi imposto nessun programma di aggiustamento macroeconomico, ma sarebbe loro richiesto di spendere le risorse coerentemente con le finalità “europee” di questo programma straordinario, un po’ come avviene all’interno dei conditional spending programmes utilizzati negli ordinamenti federali. Un ulteriore vantaggio di questo strumento sarebbe quello di non gravare ulteriormente sui debiti pubblici nazionali. Anche qui, tuttavia, esistono difficoltà di carattere politico e giuridico. Sul fronte politico, andrebbero individuati gli strumenti per ripagare questo debito pubblico. Si dovrebbero prevedere delle entrate dell’Unione (quindi, delle tasse) che dovrebbero ovviamente essere armonizzate con le tasse esistenti a livello statale per non gravare eccessivamente su imprese e cittadini. Un aumento della tassazione a livello europeo, rischierebbe però di erodere risorse a livello statale, con conseguenze deteriori per i bilanci degli stati membri.
Anche qui ci si imbatte poi in vincoli di natura giuridica di notevole portata. L’art. 310 TFUE impone all’Unione il pareggio delle entrate e delle spese, pertanto alla maggiore spesa costituita dagli Eurobond dovrebbe corrispondere una nuova entrata per garantirne il finanziamento (o la garanzia degli Stati Membri, ma in quel caso l’operazione potrebbe non essere più conveniente). Ma può l’Unione introdurre nuove entrate? In teoria sì (e lo ha già fatto in passato), però l’art. 311 TFUE subordina la previsione di nuove entrate non solo al consenso di tutti gli stati membri, ma anche all’approvazione di questa decisione da parte di tutti gli stati in base alle proprie norme costituzionali.
Come superare questi ostacoli che parrebbero insormontabili? I proponenti suggeriscono di ricorrere all’art. 122 TFUE, la norma del trattato che permette al Consiglio di decidere a maggioranza qualificata di fornire assistenza fiscale agli stati membri che si trovino in difficoltà per ragioni che sfuggono al loro controllo. Si tratterebbe insomma di far leva su questa base giuridica per derogare in un colpo solo agli artt. 125, 310 e 311 TFUE. Senza dubbio una interpretazione un po’ forzata, ma che, in assenza di alternative, individua una soluzione duratura in luogo dei soliti escamotages più o meno creativi che l’Unione ha imparato a sviluppare per aggirare alcuni dei divieti previsti dai trattati.
Esistono quindi alcuni strumenti che, anche a trattati vigenti, permetterebbero di finanziare la ricostruzione. Si tratta di soluzioni che comunque si muovono all’interno di spazi angusti e che dimostrano che molti nodi sono già venuti al pettine. Non spetta certo ai giuristi indicare quale sia la soluzione migliore perché, come si è visto, la scelta implica valutazioni di natura squisitamente politica. Ciò che più importa è che questa scelta sia consapevole e trasparente. Sapremo (sapranno) prenderla?
L’evoluzione del pensiero dei due autori, con i quali condivido la fede nel progetto europeo, nella serie di tre articoli del 3, 11 e 20 aprile è molto interessante a seguire. Il concetto centrale del primo articolo è la condizionalità; si oppongono (S) risorse “condivise” da spendere senza “condizionalità” dai singoli paesi, fino ad allora non concesse dagli altri governi, a (UE) risorse comuni da utilizzare un modo coordinato senza mettere in questione la separazione fra i bilanci nazionali e quello dell’UE, cioè meccanismi di “assistenza finanziaria …. soggetta a rigorosa condizionalità”, come il MES, versione originale hard, o modificata soft. “Quest’ultimo inciso (relativo alla rigorosa condizionalità) significa che i prestiti possono essere concessi solo in cambio del trasferimento del potere decisionale sulla politica economica nazionale dei debitori nelle mani dei creditori, nel quadro dei cosiddetti memorandum d’intesa già tristemente sperimentati in Grecia, Irlanda e Portogallo. Tradotto in italiano, questo significa ossigeno finanziario (con il contagocce) in cambio di sovranità.” Ben visto! Il MES avrebbe il vantaggio di permettere alla BCE di sostenere illimitatamente attraverso lo strumento dell’OMT il debito pubblico del paese richiedente. L’ulteriore finanziamento dei deficit nazionali attraverso la BCE renderebbe però, precisano gli autori, un’eventuale Italeurexit più oneroso. Giusto. Gli acquisti di titoli di stato da parte della BCE sono preferibili, perché non impegnano l’Italia, ma non sono sicuri, perché dipendono dalla politica indipendente della banca centrale.
Nel secondo episodio pubblicato l’11 aprile gli autori lamentano “la capitolazione” del governo italiano e dei suoi presunti alleati nella riunione dell’Eurogruppo. Criticare una decisione è ovviamente più che legittimo; le critiche possono rivelarsi proficue oltre le intenzioni di coloro che le formulano. L’accordo raggiunto il 9 aprile è ovviamente insoddisfacente di fronte alla richiesta di risorse comuni prestate senza condizioni all’Italia. L’assenza di condizioni è la sostanza della richiesta di euro-bond, sia nelle intenzioni del governo e sia per gli autori del primo articolo. Questo vale indipendentemente dalla definizione tecnica della rivendicazione, cioè (SF) emissione da tutti gli stati di titoli resi fungibili attraverso la garanzia reciproca o (SC) emissione da un veicolo comune e trasferimento successivo e senza condizioni ai paesi. Un osservatore lucido si chiederebbe però perché la richiesta del prestito incondizionato garantito da tutti (S) non è passata. Non ce n’è traccia nell’agenda ufficiale dell’UE. E la presidente della commissione affermato che gli euro-bond sono un mero slogan. Invece di contestare l’offesa, si dovrebbe provare a comprendere.
Terzo episodio, l’articolo commentato. Senza correggere né ritrarre nulla dei precedenti argomenti, gli autori adottano ora un approccio più prudente, fondamentalmente descrittivo, evitando valutazioni, zeppo di “technicalities” che piacciono tanto ai dotti, ma tutto sommato ben scritto e istruttivo. Questo sarebbe un grande passo in avanti, se loro non cambiassero o dimenticassero ora la definizione iniziale dello strumento da cui è partita la (loro) discussione. L’espressione (senza) condizione o condizionalità non appare più in abbinamento alle risorse di tipo euro-bond richieste dal governo italiano, ma solo per caratterizzare il MES hard e light. Viene pure utilizzata per descrivere maldestramente un eventuale intervento della BCE: un suo “finanziamento … (sarebbe) problematico … dal punto di vista politico perché, attribuendo nei fatti ad una istituzione indipendente e, quindi, democraticamente non responsabile il potere di vita o di morte su uno stato membro, pone, secondo gli autori, le basi per pesanti condizionamenti sulle politiche economiche e sociali nazionali.” Siamo in pieno paradosso dell’autorità indipendente in un contesto democratico. Appunto, la democrazia e la costituzione! Ma non divaghiamo. Il concetto scottante della condizionalità appare però altre due volte verso la fine dell’articolo. La prima per descrivere alcune proposte concrete di emissioni comuni le quali, guarda caso, prevedono condizioni all’utilizzo delle risorse dai singoli stati. La seconda per menzionare le modalità utilizzate “all’interno dei conditional spending programmes utilizzati negli ordinamenti federali”, ammettendo quindi la condizionalità.
Il maggior pregio dell’articolo è forse quello di poter servire da modello all’argomentazione del primo ministro e del ministro EF per giustificare il nuovo corso con una notevole prestidigitazione retorica di cui l’opinione pubblica forse non si accorgerà. Ma l’inevitabile futura discussione delle condizioni concrete, nel fuoco incrociato fra partner europei e opposizioni anti-europee, sarà una partita resa molto più difficile dal discorso iniziale poco veritiero e lontano dalla realtà.
L’attento lettore ha colto correttamente un cambio di registro: mentre nei due interventi precedenti esprimevamo una posizione critica sul MES e sulle conclusioni dell’Eurogruppo, in quest’ultimo ci limitiamo a descrivere con i necessari tecnicismi (il diavolo sta sempre nei dettagli!) le opzioni che sono sul tavolo, nel tentativo prometeico di fare un po’ di chiarezza in vista del cruciale Consiglio europeo del 23 Aprile.
L’assiduo lettore ha anche ragione nel definirci di fede europeista, anche se probabilmente non apparteniamo alla stessa congregazione. Dal tenore dei suoi interventi (se ci è concesso, non sempre lineari nell’argomentazione) ci pare di scorgere un sostanziale sostegno alla logica del MES; ovvero, al lui come a tanti pare del tutto giustificato che il trasferimento di risorse in un’unione economica e monetaria sia contraccambiato da impegni dello stato beneficiario a riformare settori più o meno ampi del proprio ordinamento. Sarebbe interessante verificare se nella crisi passata questo strumento abbia giovato più alle economie e alle società dei paesi beneficiari che alle banche dei paesi donatori. Lungi quindi dal ritrattare, in questa sede ci limitiamo invece a ribadire la nostra opposizione all’applicazione di una logica bancaria alle relazioni inter-statali: se si vuole condividere una moneta è necessaria solidarietà e la solidarietà implica trasferimenti incondizionati all’interno dell’area economica in questione (accade così in tutte le federazioni consolidate). Vi è ormai ampia documentazione sul fatto che allo stato attuale da questa moneta unica guadagnano in modo evidente i paesi del Nord, sia in termini di mancata rivalutazione della loro moneta (di qui il notevole surplus commerciale, contrario alle norme europee), sia in termini di minor costo del loro servizio al debito. Insomma, redistribuire senza condizioni non significa elargire una qualche carità ai paesi del sud; significa piuttosto riequilibrare una situazione distorta, oltre che garantire che la “baracca” stia in piedi in attesa di tempi migliori (MD, AM).