A causa del lockdown da oltre un mese la gran parte dei redditi da lavoro e dall’utilizzo di capitale fisso (impianti, macchinari, ecc.) non sono più generati. Lo stesso non può dirsi dei rendimenti derivanti da capitale finanziario e immobiliare, i quali sono generati per effetto del solo trascorrere del tempo. Si dà il caso, però, che i secondi gravano sui primi. È vero che la divisione tra lavoro e capitale non si può più tracciare con la stessa facilità di un tempo, perché le entrate complessive di molte famiglie comprendono sia redditi da lavoro che rendimenti di capitale. Ma il dosaggio tra le due componenti può variare, anche sensibilmente: e coloro le cui entrate dipendono soprattutto dal lavoro (o dal lavoro associato all’impiego di impianti e macchinari) sono evidentemente penalizzati in misura maggiore dal blocco delle attività produttive. Se l’esercizio commerciale è chiuso e non fattura, tuttavia l’affitto dell’immobile deve essere corrisposto ugualmente, a meno che il rentier non rinunci alla propria rendita: il che è improbabile.
Si può anche sospendere la percezione dei ricavi da capitale, differendola nel tempo. Ma di certo non azzerarla. È una sospensione temporale che viene incontro alle attività produttive rimaste ferme, ma che non risolve il problema, poiché si limita a spostarlo nel tempo, mantenendo il rapporto asimmetrico tra generazione dei redditi da lavoro e generazione dei redditi da capitale, con quel che ne consegue per la tenuta delle attività produttive e la loro capacità futura di stare sul mercato. Per ovviare a questo problema drammatico una delle soluzioni varate dal Governo italiano (e non solo) è quella di consentire alle imprese bloccate dall’emergenza di poter accedere a crediti agevolati e/o garantiti dallo Stato: si tratterebbe, evidentemente, di prestiti e debiti aggiuntivi a quelli già contratti, e che serviranno soprattutto a fronteggiare i costi dello stop produttivo (cioè, per corrispondere i redditi da capitale sopraddetti, oltre che per pagare imposte, tasse, utenze, costi fissi improduttivi, ecc.). Non saranno, perciò, linee di credito accese al fine di realizzare investimenti, cioè adeguamenti dei processi produttivi che consentano all’impresa di intercettare una domanda crescente, la quale, infatti, nei prossimi mesi sarà presumibilmente molto al di sotto di quella registrata nello stesso periodo dell’anno precedente.
Alla domanda calante si aggiungerà, dunque, un debito aggiuntivo, ancorché a tasso agevolato. Onde evitare lo “strozzamento” del sistema produttivo occorrerà, pertanto, stimolare con vigore la domanda interna mediante deficit spending, in qualche modo sostituendo debito pubblico a debito privato. Ma qui sorgono diversi problemi. Ne esaminerò quattro.
1) La prima questione è se nelle attuali condizioni di mercato e senza meccanismi di mutualizzazione del debito pubblico a livello europeo sia possibile per l’Italia indebitarsi a tassi di interesse sostenibili nel medio e lungo periodo. Il PEPP appena varato dalla BCE, ossia l’acquisto di titoli del debito pubblico italiano sul mercato secondario e senza condizionalità (come invece è previsto nel caso del programma OMT), può servire temporaneamente a impedire la divaricazione dello spread nella fase dell’emergenza: ma quando questa si sarà conclusa e la BCE avrà dismesso il suo intervento, rimarrà il dato di un debito nazionale che, secondo le previsioni più accreditate, avrà nel frattempo superato il 150% del PIL e che, per questa ragione, non potrà che impensierire ancor più gli investitori, tanto da indurli in futuro a pretendere un rialzo dei tassi, con effetti esiziali sulla sostenibilità di un debito denominato in euro.
2) La seconda questione è, forse, più apparente che reale. Si osserva spesso che una stimolazione potente della domanda interna determina la crescita delle importazioni, rendendo squilibrata la bilancia dei pagamenti con l’estero (e, nel caso dell’Italia, senza il sollievo legato alla possibilità di svalutare la moneta nazionale). Come il socialismo, anche il keynesismo non si può praticare “in un solo paese”. Se uno Stato stimola potentemente la domanda e gli altri Stati non fanno altrettanto, questi ultimi faranno buoni affari a spese del primo, vendendogli i prodotti che la ripresa dei consumi interni indurrà a importare, ma guardandosi bene dal “restituire il favore”. A ciò si aggiunga l’impossibilità di fare affidamento sulla svalutazione monetaria quale sostegno delle esportazioni a fronte di una crescita delle importazioni, con i prevedibili effetti sulla bilancia dei pagamenti con l’estero (il cui squilibrio, soprattutto in Spagna e Irlanda, fu – ricordiamolo sempre – il vero innesco della crisi economico-finanziaria europea di dieci anni fa, dalla quale il Continente non è ancora uscito). E tuttavia, in questo caso forse il problema non si pone veramente, poiché non sarebbe solo il nostro Paese a rilanciare i consumi e gli investimenti interni, ma anche gli altri partner europei, anch’essi interessati dalla recessione annunciata. È una circostanza decisiva, che occorrerà sfruttare al massimo, anche ricercando il coordinamento con gli altri Stati in modo che la crescita sia per tutti omogenea e senza squilibri macroeconomici.
3) Semmai il problema vero (e serio) si porrà dopo la fase strettamente emergenziale, quando si pretenderà che ritorni in vigore il Patto di Stabilità e Crescita. Pure al netto degli interventi contenitivi dello spread da parte della BCE, comunque il nostro Paese dovrà affrontare il costo del maggior indebitamento, sicché per osservare i vincoli alla decisione di bilancio sarà necessario compensare la crescita della spesa per interessi con una compressione della spesa pubblica primaria ben più ampia di quella realizzata finora: praticamente, una condanna alla recessione perpetua.
4) Ma nelle ultime ore si sta affacciando un altro problema. Prima di chiedersi se l’Italia potrà in prospettiva reggere il peso degli interessi dell’enorme debito aggiuntivo, bisogna capire se nei c.d mercati finanziari ci siano abbastanza acquirenti potenziali dei nostri titoli di debito. Quello che possono fare gli investitori privati rischia di essere insufficiente non tanto per mancanza di fiducia nei confronti della solvibilità del debitore, quanto per le obiettive caratteristiche dimensionali del mercato finanziario, che nelle prossime settimane e mesi sarà subissato da una mole enorme di offerte di bond sovrani, considerato che un po’ in tutti i paesi ci sarà una decisa propensione al deficit spending e al connesso indebitamento. Forse anche per questa ragione nel Regno Unito, uno Stato provvisto di piena sovranità monetaria, il Governo neanche prova a collocare sul mercato e a offrire agli investitori privati il debito aggiuntivo, ma prescrive al proprio central banking di monetizzare direttamente il disavanzo di bilancio (come riportato dal Financial Times del 9 aprile).
Che fare, dunque? L’Italia si trova dinanzi a un bivio. Poiché – salvo sorprese – al momento pare molto improbabile che si raggiunga un accordo soddisfacente sul Recovery Fund nei termini auspicati dal nostro Paese, restano solo due strade: o accedere alle linee di credito del MES, sia a quelle senza condizionalità, previste per le spese sanitarie, sia a quelle con condizionalità previste per ogni altra spesa (le prime, infatti, sono palesemente insufficienti rispetto alle dimensioni dell’intervento del quale avrebbe bisogno la nostra economia); oppure imboccare la via che porta fuori dall’Unione monetaria, recuperando piena sovranità nel manovrare bilancio e moneta.
Vediamo i pro e contra dell’alternativa. Per quanto riguarda la via del MES, permangono tutte le riserve già palesate efficacemente da Dani e Menendez in ordine alle sue condizionalità e alla possibilità di rimuoverle realmente: in particolare, merita di essere sottolineata l’impossibilità di ridenominare nella valuta nazionale il debito contratto per questa via. La sottoscrizione del MES rimuoverebbe, perciò, un potenziale incentivo ad abbandonare l’Eurozona, poiché anche decidendo di uscire rimarrebbe comunque l’impegno a onorare un debito ingente espresso in valuta estera. Se invece si prende la strada che porta fuori dal sistema euro, a essere duramente colpito sarà il sistema bancario e assicurativo, sia nazionale che estero. Alla data del 31 dicembre 2019 il debito pubblico italiano era detenuto per quasi la metà dalle banche e compagnie assicurative italiane (le famiglie e le imprese pesano solo per il 3%); e per l’altra metà dagli investitori stranieri e dalla BCE (traggo i dati da Il Sole 24 ore del 14 aprile). La sua ridenominazione in lire è, perciò, la “bestia nera” tanto temuta dal mondo finanziario, nella previsione che un deprezzamento della valuta nazionale rispetto alla valuta europea riduca altresì il valore “reale” dei titoli di debito italiano contenuti nel portafoglio degli investitori istituzionali, con effetti sistemici che al momento non si possono prevedere facilmente.
Quella qui descritta è un’alternativa troppo rigida? Può darsi. Così come può darsi che nell’immediato, all’esito del prossimo Consiglio Europeo del 23 aprile, non si prenda nessuna vera decisione e che l’Italia decida di non ricorrere al MES ma di continuare a rimanere nell’unione monetaria: in tal caso finanzierà il proprio disavanzo di bilancio continuando a indebitarsi in euro, magari provando ad attingere al risparmio delle famiglie italiane proponendo nuove tipologie di bond, sulla falsariga del Giappone (dove il debito nazionale è pressoché tutto detenuto da investitori interni). Ma i tempi sono stretti ed è presumibile che, giunti al limite della sostenibilità finanziaria, sarà necessario ricorrere al programma OMT di acquisto del debito italiano a opera della BCE, con annesse condizionalità sulla nostra decisione di bilancio per gli anni a venire; oppure decidere di fare da soli, senza vincoli di bilancio e di emissione monetaria che non siano quelli scelti dalla politica nazionale, e con tutte le conseguenze del caso.
Ad alcune alternative non si sfugge, prima o poi.