di Marco Betzu* e Pietro Ciarlo**
In un’intervista rilasciata al quotidiano la Repubblica lo scorso 2 aprile, Giovanni Rezza, dirigente dell’Istituto Superiore di Sanità e componente dell’ormai noto Comitato tecnico scientifico che opera in supporto al Governo, ha respinto l’idea di un allentamento delle misure restrittive anti-epidemiche diversificato per territori: «la maggior parte delle attività produttive stanno proprio al nord. Che facciamo, lo apriamo dopo perché ha avuto una maggiore diffusione del virus?».
Questa singolare risposta esprime molto bene l’approccio “uniformante” assunto dal Governo nella gestione dell’emergenza generata dal virus SARS-CoV-2, concretatosi nella estensione a tutto il territorio nazionale delle stesse identiche misure di contenimento inizialmente previste per le Regioni maggiormente colpite. Ma, verso la fine della fase 1, cioè quella della chiusura indifferenziata, è risultato che il virus, dal punto di vista sanitario, ha colpito il Nord in una misura del tutto inattesa rispetto al resto del Paese. Le spiegazioni di questo fenomeno possono essere molteplici. Sicuramente tra esse vi sono la più bassa densità demografica di alcune regioni del Sud e la minore intensità delle relazioni economiche. Per fare un esempio, mentre la Lombardia presenta una densità di 421,6 persone per kmq, in Sardegna il dato crolla a 68 abitanti per kmq. Verso la metà di marzo nella provincia di Cremona drammaticamente vi era un contagiato ogni 90 abitanti, mentre nella città metropolitana di Cagliari uno ogni 2400. Questa evidenza ha portato il virologo di Padova Andrea Crisanti ad affermare che una graduale riapertura dovrebbe avere inizio da città con minori percentuali di contagio come Cagliari e Oristano (Corriere della Sera del 4 aprile 2020).
Ciò dimostra come sarebbe più che mai opportuna una modulazione differente per contesto territoriale della necessaria ripartenza, in funzione del diverso pericolo e degli altri fattori rilevanti per la decisione, tra i quali la densità demografica. Non è chi non veda come, di fronte a un virus che si trasmette tramite il contatto interpersonale, proprio il dato della popolazione per chilometro quadrato sia decisivo. Sembra al contrario che, come fatto sinora, si voglia continuare a preferire un’applicazione ipostatizzante del principio di precauzione, per effetto della quale non vengono tenuti in debita considerazione quelli che Pitruzzella ha definito i «rischi sostitutivi nella forma di pericoli che si materializzano o aumentano in conseguenza della scelta regolativa» adottata. Tra questi, in particolare, quelli a carico del tessuto socio-economico, che non è affatto uguale in ogni regione.
L’impatto economico delle misure di contenimento, infatti, è sicuramente differente tra Nord e Mezzogiorno. Cersosimo e Viesti hanno stimato che le conseguenze sull’occupazione saranno certamente peggiori proprio nelle aree in cui il virus si è diffuso meno: «nel Mezzogiorno gli occupati che non sono dipendenti a tempo indeterminato rappresentano una percentuale decisamente maggiore che nella media nazionale: il 51,2% contro il 42,6% (sono il 46,2% nelle regioni del Centro). Questa incidenza è particolarmente alta in Sardegna e in Calabria, dove copre oltre il 60% del totale degli occupati “sospesi”, così come in Sicilia, Liguria e Valle d’Aosta, dove supera abbondantemente il 50%. Al contrario è “solo” il 34% in Lombardia, e sotto il 40% anche in Piemonte, Veneto, Friuli Venezia Giulia e Emilia-Romagna». Sulla stessa linea un recente studio dello Svimez ha calcolato «una probabilità di default delle imprese meridionali quattro volte maggiore rispetto a quanto avviene nel resto del Paese».
Quando tutto sarà finito le aziende del Nord, più strutturate e con una maggiore capacità finanziaria, riusciranno in qualche modo a riprendersi. Nel Sud, invece, le micro-aziende che caratterizzano il suo tessuto produttivo saranno spazzate inesorabilmente via, lasciando alle loro spalle un deserto economico e un inferno sociale. Molto però dipenderà da quanto le istituzioni riusciranno a fare per governare la situazione e contrastare questa tendenza. L’incipit non è soddisfacente. Le conseguenze sociali dell’epidemia non coincidono con la mappa del contagio.
Eppure, gli aspetti territoriali dell’epidemia, di palmare evidenza e importanza, in pratica non sono mai entrati nella comunicazione di massa.
Innanzitutto il rapporto tra contagiati ed abitanti non è stato mai evidenziato ed approfondito nella comunicazione politica e di conseguenza è stato trascurato anche dalla stampa. Che questo sia avvenuto nella fase della chiusura è comprensibile: non bisognava generare facili illusioni in nessuno. Ma passando alla rinascita le cose cambiano di prospettiva.
Il Nord è stato drammaticamente flagellato dall’epidemia, soprattutto dal punto di vista umano, ma questo non può oscurare la questione del Mezzogiorno. Il Sud sembra essere in parte risparmiato dall’epidemia in quanto tale, ma data la sua debolezza strutturale è socialmente devastato dalla chiusura. Secondo una dettagliata rilevazione della UIL, a fine marzo, le aziende ripartite in virtù di accordi sindacali e delle deroghe consentite per i 93 codici Ateco erano circa 16.000 in Emilia e Romagna, 14.000 in Lombardia, 11.000 in Veneto, ma solo 691 in Campania che ha quasi sei milioni di abitanti. In funzione della ripresa il Sud non ha numeri più bassi o bassi, ha numeri inesistenti. Le aziende meridionali non hanno neanche la forza di chiedere. Ma deroghe territoriali non sono neppure allo studio. Il Mezzogiorno non sembra avere la forza politica e culturale di porre neanche il problema di sé stesso. E si sa, il principio di eguaglianza non può fare a meno delle rivendicazioni di chi ne chiede l’applicazione.
Non possono essere trattate in modo eguale situazioni differenti. Considerando congiuntamente le devastanti conseguenze sociali delle chiusure e le percentuali di contagio bassissime, per alcune delle province meridionali si possono ipotizzare riaperture anticipate soprattutto per quanto riguarda il piccolo commercio e l’edilizia, pur con tutte le cautele necessarie. Sono scelte difficili, ma vanno fatte, altrimenti dell’esile tessuto economico meridionale non resterà traccia. Il virus non può spingere completamente fuori dal circuito dell’attenzione politica il dualismo del Paese.
Appare paradossale che l’unico ministro a evidenziare tale dualismo e la condizione sociale del Mezzogiorno sia quello dell’Interno.
Come appena mostrato le deroghe per l’apertura delle attività produttive hanno dal punto di vista territoriale un andamento fortemente sperequato. Dunque nulla osta, anzi tutto consiglierebbe che, con urgenza per le zone meno coinvolte del Mezzogiorno, alle condizioni di sicurezza già previste, si disponessero delle riaperture per ulteriori categorie merceologiche in particolare per tutte quelle attività che non presuppongono un commercio di massa. Urgentissima appare la ripresa dell’attività edilizia che, tra l’altro, si svolge per buona parte all’ aperto.
Dopo le grandi crisi normalmente cambiano i rapporti sostanziali e istituzionali. Con questa epidemia, a meno di significative variazioni nelle politiche pubbliche, il sogno secessionista di alcuni sembra alla fine arrivare a compimento con la definitiva distruzione del Mezzogiorno.
* Professore associato di Diritto costituzionale, Università di Cagliari
** Professore ordinario di Diritto costituzionale, Università di Cagliari