Dalla Corte costituzionale proviene una decisione che nell’attale passaggio storico, in cui la materia sanitaria è al centro degli interessi di ognuno e del dibattito scientifico ed istituzionale, assume un significato particolare.Chiamata a dirimere una questione di grande complessità sollevata dallo Stato nei confronti della Regione Siciliana, la Corte coglie l’occasione per chiarire la portata del diritto alla tutela della salute, dei livelli essenziali che rispetto a questo diritto devono essere garantiti e, soprattutto, delle modalità di finanziamento degli stessi. Ma in più si esprime sul senso di un sistema sanitario pubblico nel quale sia Stato che Regioni svolgono un preciso ruolo, e che solo nel rispetto di questo doppio livello di funzioni può raggiungere gli obiettivi che gli sono propri. La pronuncia assume così una valenza quasi profetica: da un lato – ed è l’aspetto preminente – perché esalta la finalizzazione alla persona umana del sistema pubblico di protezione della salute; dall’altro perché avalla l’organizzazione regionalizzata dell’apparato sanitario, argomento che in questo periodo – in cui riemerge la tentazione di accentrare a favore dello Stato l’attività sanitaria – appare particolarmente significativo.
Può essere interessante richiamare sinteticamente la questione che ha dato origine alla sent. n. 62/2020. Il contenzioso tra lo Stato e la Regione speciale ha già determinato l’adozione di una precedente decisione – la sent. n. 197/2019 – che era destinata ad avere un seguito: in essa infatti il giudice delle leggi aveva disposto, con separata ordinanza, che successivamente – entro un termine di sessanta giorni – tanto la Regione quanto il Presidente del Consiglio dei ministri fornissero informazioni e producessero documenti che potessero completare il quadro. In particolare, alla Regione era stata chiesta la previsione definitiva del bilancio 2018 circa l’‘esatta perimetrazione’ delle partite di entrata e di spesa e dei relativi stanziamenti inerenti ai finanziamenti e a spese in materia sanitaria; al Presidente del Consiglio dei ministri erano state chieste le risultanze del monitoraggio circa lo stato del finanziamento del Servizio sanitario nazionale nella Regione Siciliana contenente le risorse stanziate dallo Stato, quelle stanziate dalla Regione, nonché i reciproci flussi finanziari intervenuti tra le parti nell’esercizio 2018. Ma soprattutto entrambe le parti erano state invitate a fornire informazioni circa le «modalità con cui sono state calcolate le somme destinate ai LEA, la quota – in valore nominale e non percentuale – assegnata da ciascuna per tale finalità; la cronologia delle erogazioni di parte ministeriale (…) e quella delle erogazioni alle aziende sanitarie e ospedaliere da parte della Regione Siciliana». È dunque evidente come la Corte abbia voluto costruirsi – imponendo adempimenti allo Stato e alla Regione – una rappresentazione corrispondente a realtà per valutare quanto le risorse destinate a garantire la sanità regionale e, in particolare, i livelli essenziali delle prestazioni (LEA), siano coerenti al raggiungimento del risultato.
La risposta di Stato e Regione è stata di imbarazzante inerzia. Nel termine assegnato di sessanta giorni solamente la Regione Siciliana ha ottemperato alla richiesta istruttoria, ma in maniera parziale: ciononostante i dati presentati sono risultati sufficienti, consentendo al giudice costituzionale di decidere, benché poi l’emergenza sanitaria abbia portato a una pubblicizzazione tardiva della sentenza. Arrivando in una fase ormai critica della gestione della crisi, essa si colora di un significato peculiare.
Il problema che sta alla base della decisione è quello della determinazione del Fondo sanitario regionale siciliano, e di conseguenza della sua adeguatezza alle esigenze dei LEA: la controversa ripartizione degli oneri tra Stato e Regione e l’individuazione delle fonti di finanziamento sono aspetti dai quali dipende il funzionamento del sistema e, dunque, il soddisfacimento del diritto. Si tratta di questioni rispetto alle quali è vivo da tempo un acceso contenzioso tra lo Stato e la Regione, che potrebbe risolversi se si procedesse alla riforma delle norme di attuazione dello statuto e delle regole concernenti le compartecipazioni ai tributi erariali. In assenza di tale intervento, si trascina questa contrapposizione che ruota intorno al finanziamento dell’assistenza sanitaria, che solo per questa Regione – tra tutte quelle ad autonomia speciale – si fonda ancora su un apporto a carico dello Stato: la Regione Siciliana dipende infatti ancora, per il finanziamento di oltre la metà della spesa sanitaria, dal concorso dello Stato annualmente erogato attraverso i trasferimenti dal Fondo sanitario nazionale. In più la Regione Siciliana ha affrontato un percorso di regolarizzazione di situazioni precedenti di esposizione finanziaria – essa è stata soggetta al piano di rientro sino al 2015, a cui ha fatto seguito una fase di “monitoraggio”, che ancora perdura – per cui vari sono i fattori che possono spiegare le difficoltà a erogare sanità secondo le esigenze della comunità del territorio. I dati analitici acquisiti dalla Corte le permettono di stabilire – in estrema sintesi – che in sede di legge finanziaria e di bilancio di previsione 2018 la perimetrazione dei LEA non è stata correttamente effettuata; e che non è stato assicurato il completo flusso finanziario delle risorse necessarie ai LEA verso la finalità costituzionalmente vincolata. Le permettono dunque di accogliere le doglianze dello Stato, che aveva evidenziato pregiudizi sia per l’equilibrio di bilancio, sia per l’erogazione di alcune prestazioni inerenti ai LEA.
Senza approfondire ulteriormente gli aspetti tecnici della pronuncia, va invece evidenziata la riflessione che essa propone in tema di finanziamento e di garanzia dei LEA, ed i collegamenti di queste decisioni di politica sanitaria con l’obiettivo costituzionale dell’equilibrio di bilancio. Il giudice ribadisce che il Servizio sanitario nazionale assicura i LEA, come definiti dal Piano sanitario nazionale e come individuati contestualmente all’identificazione delle risorse finanziarie (art. 1 della legge 30 dicembre 1992, n. 502, recante «Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421»); e ripercorre le molteplici disposizioni – curiosamente rappresentate soprattutto da decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, fonte della quale tanto si discute in questi giorni – che rappresentano la disciplina concernente il finanziamento e la resa delle prestazioni. Il complesso dei parametri costituzionali – artt. 81, co. 3 e 117, co. 2, lett. m) – e delle norme attuative configura il «diritto alla salute come diritto sociale di primaria importanza e ne conforma il contenuto attraverso la determinazione dei LEA, di cui il finanziamento adeguato costituisce condizione necessaria ma non sufficiente per assicurare prestazioni direttamente riconducibili al fondamentale diritto alla salute». Nel senso che, se anche il finanziamento viene correttamente programmato, ciò che autenticamente garantisce il diritto è la qualità e l’indefettibilità del servizio, a cui si rivolge qualsiasi «individuo dimorante sul territorio regionale che si trovi in condizioni di bisogno rispetto alla salute». Ora tale servizio si articola in una quantità di attività e di prestazioni, rispetto alle quali possono esserci differenti condizionamenti finanziari: la regola enunciata dalla Corte è che «la garanzia delle prestazioni sociali deve fare i conti con la disponibilità delle risorse pubbliche, dimensionando il livello della prestazione attraverso una ponderazione in termini di sostenibilità economica»: ma «tale ponderazione non può riguardare la dimensione finanziaria e attuativa dei LEA, la cui necessaria compatibilità con le risorse è già fissata attraverso la loro determinazione in sede normativa». Emerge allora che la trasversalità e la primazia della tutela sanitaria impongono una «visione trascendente della garanzia dei LEA che vede collocata al centro della tutela costituzionale la persona umana, non solo nella sua individualità, ma anche nell’organizzazione delle comunità di appartenenza che caratterizza la socialità del servizio sanitario». I LEA risultano dunque un obiettivo non subordinabile soprattutto a condizionamenti legati alle risorse finanziarie, per la loro stretta funzionalità alla tutela della persona.
La loro determinazione è un obbligo del legislatore statale, ma la proiezione in termini di fabbisogno regionale coinvolge necessariamente le Regioni, per cui la fisiologica dialettica tra questi soggetti istituzionali deve essere improntata alla leale collaborazione: deve dunque esserci una «necessaria proiezione in termini finanziari, nei bilanci preventivi e nei rendiconti, dei LEA come normativamente fissati». In più il giudice delle leggi indica la strada per un percorso di effettiva garanzia dei LEA, richiamandosi al più recente atto di determinazione di questi: «in sede di programmazione finanziaria i costi unitari fissati dal d.P.C.M. del 12 gennaio 2017 avrebbero dovuto essere sviluppati sulla base del fabbisogno storico delle singole realtà regionali e sulle altre circostanze, normative e fattuali, che incidono sulla dinamica della spesa per le prestazioni sanitarie. Successivamente tale proiezione estimatoria avrebbe dovuto essere aggiornata in corso di esercizio». Come si è detto, a supporto di tale percorso il giudice richiama le parti al rispetto del principio di leale cooperazione: spetta al legislatore predisporre gli strumenti idonei alla realizzazione della garanzia dei LEA «affinché la sua affermazione non si traduca in una mera previsione programmatica, ma venga riempita di contenuto concreto e reale impegnando le Regioni a collaborare nella separazione del fabbisogno finanziario destinato a spese incomprimibili da quello afferente ad altri servizi suscettibili di un giudizio in termini di sostenibilità finanziaria» secondo quanto già enunciato nella precedente sent. n. 169/2017. Nella medesima pronuncia si era sottolineata la necessità che la separazione e l’evidenziazione dei costi dei LEA siano simmetricamente attuate, oltre che nel bilancio dello Stato, anche nei bilanci regionali ed in quelli delle aziende erogatrici per garantire l’effettiva programmabilità e la reale copertura finanziaria dei servizi, che deve riguardare la quantità, la qualità e la tempistica delle prestazioni costituzionalmente necessarie. La corrispondenza delle previsioni nei bilanci dello Stato e delle Regioni richiede dunque a entrambe le parti coinvolte dialogo e trasparenza, in assenza dei quali si producono asimmetrie e spazi per comportamenti non corretti, soprattutto in termini di tecniche ed artifici contabili, da cui derivano poi prestazioni sanitarie carenti.
Lo scenario prospettato dal custode della Costituzione è dunque quello di un sistema articolato in cui la determinazione, il finanziamento e l’erogazione dei LEA siano assicurati «dalla sinergica coerenza dei comportamenti di tutti i soggetti coinvolti nella sua attuazione». L’intero ragionamento appare in questo momento particolarmente lontano dalla realtà: a fronte di un sistema di sanità pubblica che è stato drasticamente ridimensionato e privato di finanziamenti, e di sistemi sanitari regionali dove – per torti talvolta dello Stato, come nel caso della Regione Sardegna, sulla cui situazione sanitaria il medesimo giudice si è espresso aspramente in occasione della sent. n. 6/2019; talvolta delle amministrazioni territoriali, come nel caso della pronuncia in esame – le prestazioni che rispondono ai LEA non riescono ad essere erogate, quello delineato dalla decisione n. 62/2020 appare come un modello ideale ma non applicato. E la sfasatura rispetto alla realtà si accentua ancora di più con riferimento all’appello alla leale collaborazione, che nel panorama attuale si è veramente smarrita: per fare solo alcuni esempi, le reciproche accuse tra Regione Lombardia e Governo in relazione alla proclamazione dei Comuni bergamaschi come «zone rosse», il rincorrersi di ordinanze delle Regioni e di DPCM dello Stato che producono obblighi e prescrizioni incoerenti, l’insufficiente fornitura di presidi sanitari quali mascherine e reagenti per tamponi proprio nei territori più esposti al contagio, sono tutte manifestazioni di un clima nel quale l’ultimo dei modelli di raccordo istituzionale riconoscibili è quello della leale collaborazione.
A fronte di queste dinamiche, da molti si invoca la riconduzione della materia sanitaria al livello statale, come già un recente tentativo di riforma costituzionale aveva cercato di operare. Ma anche su questo la sent. n. 62/2020 fornisce elementi per orientarsi: essa afferma che «l’intreccio tra profili costituzionali e organizzativi comporta che la funzione sanitaria pubblica venga esercitata su due livelli di governo: quello statale, il quale definisce le prestazioni che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire ai cittadini – cioè i livelli essenziali di assistenza – e l’ammontare complessivo delle risorse economiche necessarie al loro finanziamento; quello regionale, cui pertiene il compito di organizzare sul territorio il rispettivo servizio e garantire l’erogazione delle prestazioni nel rispetto degli standard costituzionalmente conformi. La presenza di due livelli di governo rende necessaria la definizione di un sistema di regole che ne disciplini i rapporti di collaborazione, nel rispetto delle reciproche competenze. Ciò al fine di realizzare una gestione della funzione sanitaria pubblica efficiente e capace di rispondere alle istanze dei cittadini coerentemente con le regole di bilancio, le quali prevedono la separazione dei costi “necessari”, inerenti alla prestazione dei LEA, dalle altre spese sanitarie, assoggettate invece al principio della sostenibilità economica». L’apparato sanitario viene descritto nel suo fisiologico funzionamento tra decisioni dello Stato, che riguardano LEA e risorse; e impegno organizzativo delle istituzioni del territorio, che rispondono alla domanda di assistenza sanitaria dei cittadini. E lo fanno con modalità – si è parlato di «modelli», da quello veneto a quello lombardo a quello infine emiliano – che, in coerenza con il principio dell’autonomia, predispongono risposte differenziate rispetto al diritto che, tra tutti, la Costituzione qualifica come fondamentale: che dunque non dovrebbe patire compressioni – per effetto di servizi regionali incapaci di garantire i LEA – che possano recare danno alla persona; ma che può fruttuosamente essere soddisfatto secondo soluzioni e criteri che devono essere declinati in ragione delle specificità territoriali.
Insomma, il giudice delle leggi non sembra avere dubbi circa la validità della scelta che c’è in Costituzione, e che la presente situazione di pressione sui servizi sanitari regionali non deve mettere in dubbio. L’opportunità che il servizio sanitario pubblico rimanga affidato alle Regioni ha senso però – ammonisce la suprema magistratura – se le risorse per tale funzione pubblica continueranno ad essere adeguatamente determinate e assegnate in giusta misura alle istituzioni territoriali, che potranno rispondere al meglio al bisogno di salute delle persone – in questa fase particolarmente esposto all’attacco della natura – se riusciranno ad instaurare un dialogo improntato alla collaborazione con gli apparati centrali, scevro da qualsiasi finalità politica e unicamente volto a reagire all’unisono per il benessere della collettività.