Parlare di fonti del diritto in un contesto così drammatico come quello della reazione normativa e provvedimentale contro l’epidemia di COVID-19 può sembrare ozioso o addirittura irritante. Si può passare per studiosi dediti alla analisi formale, “in books”, proprio mentre si è pienamente in action, alle prese con il Moloch della necessità come suprema fonte del diritto e con tutta la narrazione sulla guerra sanitaria (non esclusiva italiana, per una volta, ma vero e proprio leitmotiv trasversale ed internazionale di questo difficile periodo).
Ma poi viene da ricordarsi di quanto abbiamo letto sul collegamento del sistema delle fonti e la forma di governo nelle democrazie moderne anche nelle situazioni di emergenza costituzionale, e la massima sulla Costituzione come ciò che ci siamo dati da sobri a valere per i momenti in cui siamo ubriachi, e torna la voglia di leggere anche questa normazione emergenziale con gli occhiali che normalmente usiamo per guardare ai fenomeni che riguardano le fonti. Anche perché le “torsioni” che il sistema delle fonti subisce nel corso di un’emergenza possono elaborare una strumentazione nuova in grado di riproporsi anche fuori dall’emergenza stessa (come dimostra la legislazione antiterroristica degli anni ‘70, una parte della quale è sopravvissuta al fenomeno che intendeva combattere).
Ebbene, fra le varie torsioni del sistema delle fonti – già ampiamente segnalate – che caratterizzano l’attuale situazione normativa emergenziale (prevalenza assoluta di fonti dell’esecutivo, limitazione delle libertà personali affidata ad atti amministrativi che, benché apicali, mal sembrano attagliarsi a contesti caratterizzati da riserva di legge assoluta soprattutto in assenza di una delimitazione da parte delle fonti primarie, difficile dialogo fra normativa emergenziale statale e regionale, proliferazione del potere di ordinanza, ecc.) il recente decreto legge n. 23 dell’8 aprile 2020 sembra portare una novità abbastanza interessante, e che credo meriti di essere rilevata, proprio perché astrattamente si presta anche ad un utilizzo “a regime”, fuori dall’emergenza.
Come è noto, l’intervento normativo posto in essere dal Governo nel quadro dell’emergenza Covid-19 si articola su un livello primario composto da un limitato numero di decreti legge (nessuno dei quali ancora convertito dal Parlamento), alcuni dei quali ad ampio spettro di intervento, e da una serie di decreti del presidente del consiglio, decreti ministeriali ed ordinanze di protezione civile.
Il più recente dei decreti legge adottato dal Governo – appunto il n. 23/2020 – reca talune disposizioni “evolutive” soprattutto del precedente decreto legge 17 marzo 2020 n. 18 (in corso di conversione in legge, ad oggi il disegno di legge di conversione è stato approvato dal solo Senato) che pongono alcune questioni significative.
Il riferimento è a quelle disposizioni del “nuovo” decreto legge che espressamente abrogano disposizioni del precedente decreto legge. Nel D.L. n 23/2020 si contano almeno cinque ipotesi di abrogazione “interna”, da decreto legge a decreto legge, senza che sia intervenuta conversione. Se questo è un fenomeno in linea di principio del tutto legittimo, trattandosi di successione nel tempo di norme poste sul medesimo livello gerarchico, talvolta si può produrre un effetto paradossale, e – almeno a prima lettura – di non agevole compatibilità con lo schema dell’art. 77 Cost. e con la notissima giurisprudenza costituzionale che ne è derivata.
Prendiamo come esempio il delicato problema delle valutazioni etiche sulle sperimentazioni cliniche relative al Covid-19, trattato nell’art. 17 del D.L. n. 18/2020 e nell’art. 40 del D.L. n. 23/2020: tema che non deve apparire secondario rispetto alla situazione emergenziale; anzi, proprio nelle situazioni emergenziali si rischia maggiormente di porre in essere attività sperimentali non etiche e contrarie a numerose convenzioni internazionali in materia. Attività che poi non sono in alcun modo “recuperabili” e talvolta non sono nemmeno agevolmente risarcibili.
Nel “primo” decreto legge (il n. 18/2020), il governo aveva deciso una secca semplificazione delle modalità approvative delle sperimentazioni cd. multicentriche (cioè quelle poste in essere presso diverse strutture sul territorio nazionale): mentre normalmente tali sperimentazioni devono ricevere un parere unico nazionale del comitato etico del centro sperimentatore principale e altrettanti pareri dei comitati etici dei centri coinvolti come unità locali, nel caso delle sperimentazioni relative al Covid-19 e fino al termine dello stato di emergenza dichiarato con delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020, il D.L. 18/2020 ha accentrato le valutazioni etiche in un “parere unico nazionale” rimesso esclusivamente al Comitato etico dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma, a prescindere da quali siano le strutture cliniche coinvolte: parere che assorbe e sostituisce tutte le valutazioni etiche “centrali” e “locali” normalmente previste.
Ovviamente questa disposizione ha avuto una immediata applicazione, vista l’assoluta urgenza di reperire una cura efficace contro il virus, e l’Istituto Spallanzani ha già espresso pareri unici nazionali sulla base dei quali numerose realtà cliniche in Italia hanno avviato le sperimentazioni così autorizzate.
L’estrema urgenza di provvedere ha però causato talune problematiche applicative. Ad esempio, non era ben chiaro se il regime semplificato descritto valesse solo per le “sperimentazioni cliniche” interventistiche propriamente dette o anche per gli studi cd. “osservazionali” (che cioè non modificano la normale pratica clinica) o per i programmi di uso terapeutico compassionevole (cioè un protocollo clinico predefinito di uso di farmaci in fase di sperimentazione, impiegati al di fuori degli studi clinici, quando non esista valida alternativa terapeutica al trattamento di patologie gravi, o di malattie rare o di condizioni di malattia che pongono il paziente in pericolo di vita). Inoltre, l’art. 17 non aveva chiarito il problema della – normalmente necessaria – copertura assicurativa dei cd. studi no profit (cioè non sponsorizzati da case farmaceutiche), per i quali l’accesso alla assicurazione aziendale viene di regola garantito proprio dal rilascio del parere del comitato etico locale, in questo caso eliminato.
Ebbene, il D.L. n. 23/2020 – con presupposti di necessità ed urgenza praticamente immutati – è tornato sulla materia con l’art. 40, usando uno schema di questo tipo: (i) ha reiterato il contenuto dell’art. 17 del D.L. n. 18/2020 riproponendo con le stesse esatte parole la competenza unica del Comitato Etico dell’Istituto Spallanzani; (ii) ha espressamente ampliato detta competenza ricomprendendovi anche gli studi osservazionali e i programmi di uso terapeutico compassionevole, (iii) ha stabilito che per gli studi no profit sul Covid-19 non è necessaria la stipula di una specifica polizza assicurativa; (iv) ha previsto infine che, a decorrere dall’entrata in vigore del D.L. n. 23/2020, sia abrogato il citato art. 17 del precedente D.L. n. 18/2020.
L’abrogazione dell’art. 17 del precedente decreto legge implica che, fino al giorno in cui l’abrogazione stessa si produce, l’art. 17 continua a produrre il proprio effetto trattandosi di successione nel tempo di norme di pari livello. Dopo l’abrogazione, trova applicazione – per i sessanta giorni indicati come limite massimo dall’art. 77 Cost. o comunque fino alla conversione – la nuova disposizione contenuta nell’art. 40 del D.L. n. 23/2020, che però è largamente riproduttiva di quella abrogata.
Si crea così un effetto particolare. L’Istituto Spallanzani è abilitato ad esprimere parere unico sulle sperimentazioni cliniche dalla data di entrata in vigore del primo decreto legge, e poi ancora dalla data di entrata in vigore del secondo decreto legge, che ha confermato tale disciplina ed ha ampliato i casi di sua applicazione. Dunque l’abrogazione contenuta nell’art. 40 del secondo decreto legge ha l’effetto di estendere l’efficacia nel tempo del nucleo principale della disposizione del primo decreto per un altro arco temporale di conversione: quello del decreto che prevede l’abrogazione stessa e ripropone detta disciplina (peraltro ampliandola).
Alla fine, se in ipotesi (ma come è probabile) il Parlamento dovesse convertire il D.L. n. 23/2020 alla fine del periodo di sessanta giorni di efficacia di quest’ultimo, avremmo il risultato che la disposizione prevista dall’art. 17 del D.L. n. 18/2020, proprio grazie al meccanismo abrogazione/riproposizione posto in essere dall’art. 40 del D.L. n. 23/2020, sarà “vissuta” ed avrà trovato applicazione – sempre sulla base di decreti legge -per un periodo ben più lungo dei sessanta giorni ex art. 77 Cost. In particolare, essa avrà trovato applicazione per il periodo fra l’entrata in vigore del primo decreto legge (17 marzo) e la conversione (o mancata conversione) del secondo: quindi astrattamente fino all’8 giugno 2020.
E, in linea di principio, nulla impedirebbe che un terzo decreto legge prevedesse un meccanismo analogo spostando ancora più in avanti il termine dell’efficacia “precaria” della disposizione.
La conversione, poi, potrebbe ulteriormente complicare le cose. Se il Parlamento convertisse il D.L. n. 18/2020 non modificando l’art. 17 (ed in effetti il Senato ha approvato un d.d.l. di conversione che non tocca questa disposizione), avremmo una situazione per cui la disposizione si applica nella sua versione originaria da D.L. n. 18/2020 fino alla abrogazione intervenuta con il D.L. n. 23/2020, poi torna ad applicarsi la versione originaria dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del D.L. 18/2020, ed infine tornerà ad applicarsi la “seconda versione” della disposizione sulla base della eventuale conversione senza emendamenti dell’art. 40 del D.L. n. 23/2020.
Non si tratta di una riflessione astratta. Si pensi – proprio nell’esempio che si sta facendo – alla portata della disposizione sulla non necessità di copertura assicurativa delle sperimentazioni sul Covid-19, disciplinata solo nel D.L. n. 23/2020. Avremmo una sorta di “intermittenza” di applicazione della disposizione che non deporrebbe senz’altro in favore della certezza del diritto ed anche – visto che parliamo di sperimentazioni cliniche – sulla effettiva tutela dei destinatari delle sperimentazioni e della loro eguaglianza. Sotto questo profilo, sarebbe davvero importante che il Governo procedesse a proporre un emendamento al d.d.l. di conversione del D.L. n. 18/2020 in modo da recepire già in quella sede i contenuti ampliativi/innovativi della disposizione introdotti dal D.L. n. 23/2020.
Il fenomeno che si descrive sembra avere dei tratti non dissimili da quello della reiterazione del decreto legge, assai conosciuto e studiato, ed oggetto di celebri pronunce della Corte costituzionale, ma anche da quello del potere di integrazione/correzione che ormai tradizionalmente viene riconosciuto al Governo da molte leggi di delegazione.
Con la reiterazione del decreto legge condivide l’aspetto verosimilmente più vistoso, e cioè la riproposizione di un contenuto normativo identico in due distinti decreti legge (e potenzialmente in una “catena” di decreti legge), ma vi è la non piccola differenza per cui la reiterazione si verifica in caso di mancata conversione del decreto legge, mentre il fenomeno che qui interessa prescinde dalla conversione, in quanto si manifesta prima della conversione del decreto legge più antico. Con il fenomeno della integrazione/correzione condivide il “ritorno” del Governo su una materia già disciplinata, al fine di correggere la rotta originariamente intrapresa, alla luce della prima applicazione della normativa; ma ovviamente vi è la profonda differenza per cui la teoria del potere di integrazione/correzione è stata tutta elaborata nel quadro della delegazione legislativa, e per cui, in quel quadro, l’autorizzazione alla integrazione/correzione discende da una autorizzazione preventiva da parte del Parlamento.
Con riferimento alla reiterazione, il fenomeno qui descritto sembra condividere anche le problematiche che la Corte costituzionale individuò nella sentenza n. 360 del 1996, e cioè la mutazione della natura provvisoria del decreto ancorata al “termine invalicabile” contenuto nell’art. 77 Cost., la lesione della straordinarietà dei requisiti della necessità ed urgenza, l’attenuazione della conseguenza della perdita retroattiva di efficacia del decreto legge non convertito, il vulnus al principio di certezza del diritto, l’assenza di nuovi autonomi presupposti, ed anche un significativo spostamento dell’asse del potere legislativo in favore del Governo. D’altra parte, però, un intervento della Corte sub specie di “vizio di reiterazione” potrebbe essere tecnicamente difficile (giacché in questo caso non si avrebbe una disposizione reiterata a seguito di mancata conversione) ed anche impervio, giacché la disposizione “riproposta” avrebbe anche contenuti ulteriori rispetto a quella originaria. Un intervento di questo tipo potrebbe avere anche un modesto effetto concreto, giacché la Corte si troverebbe ad intervenire verosimilmente dopo la cessazione dello stato di emergenza e dopo che le sperimentazioni poste in essere sulla base dei decreti legge sono già state concluse, i pazienti trattati ed i risultati eventualmente pubblicati. Inoltre, l’eventuale conversione – che difficilmente mancherà in una situazione come quella presente – sarebbe comunque verosimilmente considerata sanante
In definitiva, la prima impressione che emerge dal fenomeno abrogazione/riproposizione di contenuto normativo fra due decreti legge in attesa di conversione è quella di una ulteriore “torsione” in favore del Governo dell’assetto costituzionale dell’emergenza costituzionale, che peraltro in linea di principio – ed in assenza di un contegno self restreint del Governo o di un contegno di censura da parte del Parlamento – potrebbe prestarsi ad essere utilizzata anche al di fuori dell’emergenza stessa, portando ad una figura nuova e non del tutto marginale nel ben noto “bestiario” dell’abuso del decreto legge.
* Prof. ass. di Istituzioni di diritto pubblico, Università di Pisa
Buonasera,ho letto questa bellissima argomentazione sulla “reiterazione”.
Avrei necessità di chiedere un chiarimento al riguardo.
Il Ministro Azzolina,presenta diverse ”bozze” di decreti attinenti i bandi di concorso per l’insegnamento.È possibile,a tal proposito, scorgere “una reiterazione di bozze di decreti”?
Grazie e complimenti per il Vostro articolo.
Carissima, le rispondo direttamente io: presentare diverse bozze vuol dire che si sta discutendo e cercando una soluzione condivisa. Alla fine si spera che il decreto verrà emanato, ma non è male che lo si faccia dopo ampia consultazione. O sbaglio?
Roberto Bin