di Benedetto Ponti*
E’ notizia di questi ultimi giorni che tra le misure adottate per contenere la diffusione del coronavirus, v’è anche l’istituzione – presso la Presidenza del Consiglio – di una “Unità di monitoraggio per il contrasto della diffusione di fake news relative al COVID-19”. E’ composta di esperti e addetti ai lavori, con il compito di porre rimedio al “pericolo che la diffusione di disinformazione e di contenuti falsi, non dimostrati o fuorvianti, nel perdurare dell’emergenza epidemiologica, possa indebolire le misure di contenimento del contagio ed accentuare la difficoltà della gestione emergenziale disposta in attuazione dei provvedimenti sopra citati”, tenuto conto della “persistente massiva diffusione di disinformazione e fake news relativamente al COVID-19, in particolar modo sul web e sui social network”.
Già la circostanza che il provvedimento in questione abbia riproposto la nozione di “fake news” appare poco commendevole, dal momento che già due anni fa il gruppo di esperti chiamati dalla Commissione a supportare l’elaborazione di quella che sarebbe divenuta la strategia dell’Unione per il contrasto alla disinformazione, aveva suggerito di scartare tale nozione, perché ambigua, disomogenea nei contenuti e idonea pertanto a comprimere in modo indiscriminato diversificate e legittime forme di espressione del pensiero (quali, ad esempio, la satira o la parodia). Per altro, appare singolare che una misura che prevede (addirittura!) la “ricognizione e classificazione dei contenuti falsi, non dimostrati o fuorvianti, creati o condivisi con riferimento al COVID-19” al fine di contrastarne la diffusione (e, pertanto, idonea a limitare la libertà di manifestazione del pensiero), sia adottata con un atto amministrativo (e con un atto di rango legislativo) sebbene ciò stia emergendo oramai come la prassi prevalente, nell’affrontare l’attuale, eccezionale congiuntura pandemica.
Ma in disparte da questi profili (pure interessanti, anzi centrali), vorremmo attirare l’attenzione su due ulteriori aspetti di questa operazione, che destano altrettanta (se non, maggiore) preoccupazione, e che si manifestano come altrettante asimmetrie nell’apparato regolatorio così prefigurato.
La prima asimmetria è quella relativa alle due tipologie di misure, previste nel decreto, volte a “bonificare” i flussi informativi relativi al Covid-19, così da “orientare correttamente i comportamenti dei cittadini”. Una prima misura, infatti, consiste nel definire strategie (da sviluppare anche in collaborazione “con i diversi soggetti del web specializzati in factchecking e con i principali motori di ricerca e piattaforme social”) utili per contenere/contrastare la diffusione di contenuti “falsi, non dimostrati o fuorvianti”. Dunque, l’enfasi (negativa) è calibrata su elementi caratteristici predicati con riguardo alla dimensione oggettiva delle informazioni veicolate nel web e sui social (false, non dimostrate, fuorvianti): sono appunto tali caratteristiche a rendere “pericolosa” la fruizione di tali contenuti.
Accanto a questa misura in negativo (e che possiamo a buon diritto ascrivere ai modi della censura), ve n’è un’altra, che potremmo definire complementare, e che si gioca invece in positivo. Essa consiste nella “definizione di opportune modalità idonee a potenziare e rendere più visibile ed accessibile l’informazione generata dalle fonti istituzionali, anche attraverso un migliore posizionamento sui motori di ricerca e sui social media”. Qui non si tratta di censurare, ma invece – al contrario – di promuovere la fruizione dell’informazione. E tuttavia, e qui sta l’asimmetria, i contenuti da promuovere non sono identificati alla stregua di un parametro omogeno, ma di segno opposto a quello assunto nella misura adottata in negativo. I contenuti da promuovere, in altri termini, non sono quelli (classificati come) “veri, dimostrati, non fuorvianti”; il criterio, invece, è di carattere eminentemente soggettivo, poiché attiene unicamente alla provenienza dei contenuti, quelli “generati dalle fonti istituzionali”.
In questa asimmetria tra ciò che va contrastato e ciò che merita di essere promosso si sviluppa un potenziale cortocircuito, che potremmo sintetizzare nei termini che seguono. Per un verso, tale asimmetria potrebbe stare ad indicare che viene assunta come “scontata” ed “automatica” la perfetta co-estensione e coincidenza tra la provenienza soggettiva dell’informazione (quella “generata da fonti istituzionali”) e le caratteristiche oggettive dei relativi contenuti (ossia: “veri, dimostrati, che mettono sulla retta via”). Secondo una differente lettura, invece, l’asimmetria starebbe invece ad indicare una relazione di indifferenza: a contare sarebbe solo la fonte di provenienza (pubblica), in modo indifferente da come questa si connoti con riferimento ai caratteri dei contenuti generati e diffusi. Entrambe le soluzioni sollevano problemi rilevantissimi, e gettano quindi un cattiva ombra sulla modalità di declinazione di queste misure.
La seconda asimmetria che si intende segnalare è quella per cui le misure di contrasto alla diffusione delle “fake news” riguardano in modo precipuo ed esclusivo l’ambiente informativo abilitato dal web e dai social network. Una soluzione che risulterebbe simmetrica solo ove fosse possibile argomentare (in modo convincente) che il problema della diffusione di fake news (rectius, di contenuti “falsi, non dimostrati o fuorvianti”) riguarda esclusivamente tali media, e non anche quelli tradizionali, ossia i media mainstream. Poiché è fin troppo facile portare esempi in senso contrario (vi sono saggi corposi, in questo senso) – anche con riferimento specifico ai contenuti diffusi in relazione alla pandemia Covid-19 (un virologo il 10 febbraio scorso affermava sulla tv pubblica che “in Italia il virus non c’è”; le indicazioni circa l’appropriatezza dell’uso delle mascherine da parte della generalità della popolazione, formulate dall’OMS, sono mutate radicalmente di segno nel giro di poche settimane; la campagna di spot inizialmente promossa dal Ministero della salute assicurava “che non è affatto facile il contagio”) – l’asimmetria della misura approntata è invece evidente, e porta fatalmente ad interrogarsi circa le sue effettive, non dichiarate, motivazioni, dal momento che la limitazione della libertà di informazione così operata (in termini asimmetrici) non appare adeguata rispetto alla finalità dichiarata (contenere la diffusione di fake news).
Siamo tutti consapevoli che una comunicazione istituzionale credibile ed efficace costituisce un tassello importante di una strategia complessa e delicata come quella necessaria per fare fronte ad una emergenza senza precedenti come quella innescata dalla diffusione del Covid-19. Non siamo affatto convinti, invece, che la elisione del dibattito pubblico, liberto ed aperto, in particolare quello abilitato dal web e dai social network, sia la strada più opportuna per raggiungere (o mantenere) questo obiettivo. E, certamente, si tratta di un percorso che si sviluppa lontano dal sentiero tracciato dalla carta costituzionale.
* Professore associato di diritto amministrativo nel Dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli studi di Perugia