Di fronte al terribile dazio di vite umane imposto dal Corona virus, può sembrare fuori luogo o quantomeno velleitario criticare l’operato del Governo Conte sotto un profilo giuridico. È quindi necessario premettere che non si vuole difendere il famigerato ‘diritto alla passeggiata’ in quella che è stata definita una ‘human tragedy of potentially biblical proportions’. Piuttosto, si cercherà di riflettere a caldo sulle possibili conseguenze della gestione normativa di questa emergenza sul funzionamento della nostra democrazia.
Facendo coincidere l’inizio della crisi con la dichiarazione di emergenza nazionale del 31 gennaio scorso, ad oggi si contano 2 Decreti legge – oltre a tutti quelli contenenti misure economiche – 8 Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (‘DPCM’), e svariate ordinanze del Ministero della salute. Queste ultime trovano un sicuro fondamento giuridico nell’art. 32 della legge n.833/1978, che attribuisce al Ministro della sanità il potere di emettere ordinanze di carattere contingibile e urgente in materia di igiene e sanità pubblica, e non saranno pertanto esaminate. Di fronte a questa compulsiva produzione normativa è quindi opportuna una sintetica ricostruzione cronologica dei principali interventi.
Come detto, il primo provvedimento adottato dal Governo per fronteggiare l’emergenza Corona virus risale al 31 gennaio, quando i soli casi conosciuti di Covid-19 in Italia era la coppia di cinesi ricoverata allo Spallanzani di Roma. Con una delibera del Consiglio dei ministri, veniva dichiarato lo stato di emergenza nazionale per una durata di 6 mesi, ossia fino al 31 luglio 2020. La dichiarazione è stata effettuata ai sensi del Codice della Protezione Civile (Art. 24 D.Lgs 1/2018), e non prevede alcuna forma di convalida parlamentare. Il suo principale effetto è l’attribuzione al capo della Protezione Civile di poteri straordinari per la gestione delle crisi, da esercitarsi per mezzo di ordinanze. In questo senso, è importante precisare che questa dichiarazione non costituisce la base legale dei DPCM adottati nell’ultimo mese. Di fatti, questa è costituita dal primo Decreto Legge, n.6 del 23 febbraio 2020, emanato dal Governo Conte. Da una lettura combinata degli articoli 1 e 3 del Decreto si ricava infatti che il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della salute, potrà disporre misure che prevedano, tra l’altro, il divieto di allontanamento e la sospensione di manifestazioni e attività scolastiche. Ancora una volta, si deve sottolineare come il Decreto non abbia messo in atto tali misure, ma si sia limitato ad autorizzare il Governo, nella persona del Presidente del Consiglio, a farlo. In altre parole, il D.L. costituisce una sorta di ‘auto-delega’ governativa.
Gli 8 DPCM adottati in forza della delega conferita dal summenzionato D.L hanno progressivamente ampliato l’ambito di applicazione e la portata restrittiva delle misure. Da ultimo, il DPCM del 22 marzo, oltre a confermare le limitazioni precedentemente imposte su tutto il territorio nazionale – in primis il divieto di abbandonare il proprio domicilio se non per motivi tassativamente indicati – ha disposto la chiusura di tutte le attività produttive non essenziali. Sempre il 22 marzo, il Ministero della salute, di concerto con il Ministero dell’interno aveva emesso un’ordinanza, il cui contenuto è riprodotto integralmente nel DPCM adottato in pari data. Ciò a testimonianza di come, nella concitazione degli eventi, sia venuta meno la coordinazione anche all’interno dello stesso esecutivo.
Il D.L. n. 19 del 25 marzo, l’ultimo finora emanato, pare preoccuparsi maggiormente dei profili di costituzionalità dell’azione di Governo rispetto al suo predecessore. Innanzitutto, per la prima volta, all’Art. 1., si fissa come limite temporale all’esercizio dei poteri emergenziali governativi il 31 luglio 2020, ossia la fine dello stato di emergenza nazionale dichiarato ai sensi del Codice della Protezione civile. L’Articolo 1 del D.L. afferma anche che le misure restrittive dovranno essere adottate avendo riguardo ai principi di adeguatezza e proporzionalità, altro riferimento del tutto assente nei precedenti provvedimenti. Inoltre, l’articolo 4 depenalizza, salvo che il fatto costituisca diverso reato, il mancato rispetto delle misure restrittive, punendole con una sanzione amministrativa.
L’articolo 2 del testo comunque conferma che le misure restrittive sono adottate per mezzo di DPCM e fa salvi gli atti adottati sulla base del D.L. 23 febbraio 2020. Peraltro si deve notare come quest’ultimo Decreto, con l’eccezione del suo Articolo 3, dove è contenuta l’auto-delega, venga espressamente abrogato. Tuttavia, dato che il Parlamento ha nel frattempo provveduto a convertire tale Decreto in legge, è legittimo domandarsi quali siano gli effetti giuridici di questa abrogazione. In conclusione, se il primo D.L. può essere considerato una delega del Governo al Presidente del consiglio, il secondo si configura come una ‘conversione’ dei DPCM adottati.
Riassumendo, le principali criticità della gestione dell’emergenza Corona virus da parte del Governo Conte sembrano essere costituita dallo strumento utilizzato per imporre le misure restrittive, ossia il DPCM. La normazione per mezzo di DPCM ha infatti rilevanti effetti sull’assetto della separazione dei poteri. Innanzitutto, comporta l’esclusione del sindacato di costituzionalità da parte della Consulta. Inoltre, dato che i DPCM finora adottati non assumono la forma di regolamenti ex art. 17 L. 400/88, anche il Presidente della Repubblica viene estromesso dal procedimento di formazione di questi atti, che hanno natura amministrativa. Più significativamente, l’utilizzo di DPCM per la gestione dell’emergenza si riflette in una marginalizzazione del ruolo del Parlamento, che al più potrà rifiutarsi di convertire il decreto legge ‘reggente’ con effetti potenzialmente disastrosi sulla certezza del diritto. Da ultimo, si può ragionevolmente sostenere che l’aver ristretto la libertà di circolazione con DPCM costituisca una violazione della riserva di legge stabilita dalla Costituzione all’Art. 16.
A tutto questo si potrebbe obiettare che trovandoci in uno stato di necessità, sia legittima una sospensione della Costituzione. Se questo è senz’altro condivisibile riguardo alla temporanea sospensione delle libertà fondamentali, è più difficile sostenerlo con rispetto alle regole costituzionali relative all’assetto istituzionale e alla produzione normativa. Invero, nonostante un numero di vittime ogni giorno più intollerabile e allo spettro della più grave crisi economica dal secondo dopoguerra, la situazione in cui ci troviamo non è definibile come stato di eccezione, inteso come situazione nella quale la sopravvivenza stessa dello Stato è posta in discussione. La gravissima situazione che il Governo è chiamato a fronteggiare è un’emergenza sanitaria, che poteva, e può, essere gestita in maniera più rispettosa della Costituzione e delle prerogative delle altre istituzioni democratiche.
A ben vedere, il problema sembra risiedere più a monte, specificamente nella mancanza di una comprensiva regolamentazione legislativa dello stato di emergenza. In questa ottica, un breve sguardo su altri paesi europei può essere di aiuto. In Spagna, ad esempio, il Governo ha adottato provvedimenti simili, in quanto alla portata restrittiva, a quelli italiani. Ma che trovano sicuro fondamento giuridico nella dichiarazione dello stato di allarme (‘estado de alarma’) effettuata ai sensi dell’Art. 116 della Costituzione, il cui contenuto è specificato da una legge organica (n. 4/1981) . Questo ancoraggio nel dettato costituzionale, giustifica la marginalizzazione del ruolo del Parlamento, che comunque, ai sensi dello stesso Art. 116, rimane competente a decidere, ogni 15 giorni, se autorizzare la proroga dello stato di allarme.
Più interessante è una comparazione con il caso francese. La Costituzione del 1958, come quella italiana, non disciplina lo stato di emergenza, ciò nonostante la risposta francese alla crisi appare più convincente da un punto di vista costituzionale. Dopo due decreti ministeriali (nn. 190, e 247 del 2020) con i quali venivano requisite dallo Stato tutte le attrezzature sanitarie, il Parlamento francese, in data 23 marzo ha approvato una legge (n. 290-2020), nella quale si dichiara lo stato di ‘urgence sanitarie’ per una durata di due mesi (Art. 4). In maniera analoga al D.L. 6/2020, la legge francese prevede che le misure restrittive, sostanzialmente identiche a quelle italiane, siano imposte con decreto del primo ministro. Il Parlamento tuttavia, aldilà dell’aver dichiarato lo stato di emergenza sanitaria, conserva un ruolo nella gestione della crisi. Ogni eventuale proroga dello stato di emergenza, della durata massima di un mese, dovrà infatti essere da questo approvata e tutti i decreti adottati dal primo ministro devono essere immediatamente trasmessi a Senato e Assemblea nazionale.
In definitiva, ciò che preoccupa maggiormente nel contesto italiano è la possibilità per il Governo di esercitare poteri emergenziali con limiti di tempo e contenuto vagamente definiti. Il rischio è infatti che la regolamentazione a colpi di decreti ministeriali, in un sostanziale vuoto normativo, possa affermarsi come la modalità ordinaria di gestione delle emergenze anche al di là della tragica situazione attuale. Rischio aggravato dal fatto che, come osservato da Agamben, l’instaurazione di uno stato di emergenza permanente è divenuta una pratica essenziale delle democrazie liberali, e l’abuso della decretazione d’urgenza da parte dei vari governi italiani ne è la prova più evidente. In questo senso, sarebbe quanto mai auspicabile che il Parlamento intervenga a fornire una cornice giuridica dello stato di emergenza che ne indichi i criteri identificativi, disciplini le modalità di esercizio e i limiti dei poteri straordinari spettanti al Governo, e sottoponga ogni proroga dello stesso alla preventiva autorizzazione parlamentare.
A “senz’altro condivisibile riguardo alla temporanea sospensione delle libertà fondamentali” ho smesso di leggere. Ma perché condivisibile? che pubblicate?