di Francisco Balaguer Callejón*
Lo scoppio della crisi sanitaria mi ha sorpreso a Milano, mentre stavo impartendo un corso di diritto costituzionale, su temi legati all’integrazione europea, alla globalizzazione e alla crisi del costituzionalismo nel XXI secolo. Dopo la crisi finanziaria, e le profonde trasformazioni che hanno interessato i processi comunicativi – anche in relazione al ruolo di importanti operatori transnazionali nel settore tecnologico – ci troviamo ora di fronte ad una crisi nuova, dalle dimensioni molto superiori a quelle che l’hanno preceduta. Solo quando terminerà saremo in grado di valutare la portata dei suoi effetti, ma già ora essa mostra di possedere tutte le caratteristiche proprie dei grandi processi globali di questo secolo ed in particolare la rapidità di evoluzione e l’intensità – in questo caso devastante – con cui essi colpiscono le società.
Da questi processi dobbiamo imparare ad affrontare le sfide che ci attendono in futuro, e quelle del presente. Le politiche di comunicazione e le narrazioni da esse generate sono essenziali nella gestione di eventi come l’attuale crisi sanitaria, che riguarda milioni di persone nel mondo. Ecco, proprio la narrazione dell’emergenza sanitaria nel contesto europeo appare profondamente difettosa e, probabilmente, ha contribuito ad aggravare la crisi stessa. Ciò è evidente nelle dinamiche di relazioni tra stati europei – e anche in alcune improvvide dichiarazioni di alti dirigenti dell’Unione (come ci manca Mario Draghi!) – in cui la solidarietà è stata del tutto assente, almeno in una prima fase: tutto al contrario, l’Europa intera si sarebbe dovuta schierare a fianco dell’Italia, che sta affrontando uno dei momenti più difficili della sua storia con un coraggio e una determinazione che meritano ammirazione e rispetto.
Fortunatamente, si intravedono segnali di cambiamento, ma resta assolutamente necessario un cambiamento profondo nella mentalità – nel paradigma – con cui l’Unione europea sta affrontando la crisi, per rendere la risposta all’altezza della promessa di solidarietà che ispira il processo di integrazione. Analoghi difetti si riscontrano in ambito interno, in relazione al modo in cui è stata costruita la narrazione dell’emergenza con riguardo alla condizione di persone e gruppi vulnerabili, quelli che cioè hanno in maggior misura bisogno del nostro appoggio. Anche questa narrazione, dopo un momento di iniziale incertezza, sembra in via di correzione, ma nella prima fase – e forse involontariamente – essa è stata costruita senza tener conto dell’imperativo della solidarietà, con riflessi potenzialmente negativi sulla gestione stessa dell’epidemia.
Certo, è comprensibile che la lettura dei dati epidemici si sia orientata a tranquillizzare la popolazione, evitando allarmismi. Allo stesso tempo, però, si tratta di dati incontestabili: la mortalità incide maggiormente in relazione all’età avanzata e all’esistenza di patologie pregresse. Assai diverso è, invece, il discorso sull’interpretazione di questi dati. In uno spazio pubblico sempre più piegato a logiche di tipo funzionalista e utilitarista, da più parti si è inizialmente sottovalutato l’impatto dell’infezione proprio perché letale solo nei confronti di persone anziane o malate. Per il resto della popolazione, è sembrato non vi fossero particolari rischi, con la conseguenza che si è progressivamente consolidata la sensazione che non fosse necessario prendere misure di precauzione perché, in caso di contagio, il rischio sarebbe stato quello di contrarre una semplice influenza. Si è così persa del tutto la consapevolezza dell’esistenza di una catena di solidarietà, fondamentale per dare una adeguata risposta sociale e collettiva alla propagazione del virus, contenendola.
Cosa sarebbe accaduto, invece, con una narrazione del tutto differente? Se si fosse detto, ad esempio, che la crisi sanitaria è particolarmente grave proprio perché l’infezione colpisce soggetti vulnerabili, e dunque meritevoli di speciale protezione? Se si fosse insistito sulla pesante responsabilità che hanno i giovani i quali, proprio per la loro relativa resistenza alle più gravi conseguenze del contagio, rischiano di trasmettere il virus in modo silente alle persone più fragili? O ancora, se si fosse sottolineato che il fatto che esistano morti da influenza comune, oltre a essere in sé un dato da combattere, non giustifica in alcun modo che si possa tollerare che altri muoiano in conseguenza del contagio da coronavirus, senza che si mettano in campo tutti gli strumenti per evitarlo?
Questo tipo di narrazione, insensibile alla solidarietà, contrasta con lo sforzo straordinario degli operatori sanitari – oggetto di quotidiane spontanee manifestazioni pubbliche di gratitudine, in Italia come in Spagna, da parte di cittadini che rivolgono loro applausi dalle finestre – che lottano senza sosta per la vita dei contagiati. E, ancor peggio, ha innescato una serie di atteggiamenti che hanno favorito, almeno nella prima fase di propagazione dell’epidemia, la diffusione del virus. Anche in una prospettiva meramente funzionalista, la mancanza di solidarietà ha raccolto frutti amari. Sarebbe stato nettamente preferibile insistere sulla responsabilità individuale e sulla solidarietà con il resto della comunità, gli unici strumenti per evitare che l’intera società patisca le conseguenze dell’epidemia e per neutralizzare, peraltro, gli effetti dei comportamenti irresponsabili. Per fortuna, come già notato, la narrazione è progressivamente cambiata, e ora si pone l’accento – assai opportunamente – sulla protezione dei soggetti vulnerabili e sull’esistenza di una vera e propria catena di solidarietà della quale tutte e tutti dobbiamo essere parte attiva.
Sarà bene, in futuro, ricordare i valori costituzionali che ispirano la nostra convivenza, e in primo luogo la dignità della persona: di qualunque persona, indipendentemente dalla sua età o dalle sue condizioni di salute. O ancora, l’attenzione speciale che deve essere dedicata ai gruppi vulnerabili, meno attrezzati a fronteggiare un problema concreto. Questi valori, come la stessa Costituzione, occupano una posizione sempre più marginale nello spazio pubblico. Nel contesto dell’accelerata globalizzazione di questo secolo, economia e tecnologia si stanno convertendo in fattori di legittimazione che, per la prima volta nella storia del costituzionalismo moderno, competono con la stessa Costituzione nella costruzione dello spazio pubblico, favorendo narrazioni che lasciano da parte diritti e democrazia come obbligato parametro di riferimento nella gestione di problemi e conflitti. Rimettere la Costituzione al centro dello spazio pubblico, allora, non è solo questione di convinzioni democratiche o etiche, ma snodo essenziale per garantire una risposta equilibrata ai problemi del nostro tempo.
* Catedrático de Derecho Constitucional de la Universidad de Granada e Professore Visitatore all’Università degli Studi di Milano – Traduzione dal castigliano di Angelo Schillaci. Il contributo rielabora un intervento inizialmente pubblicato sul quotidiano El País il 12 marzo 2020, e ripreso dal Correio braziliense il 13 marzo 2020