Dal Medioevo al Settecento, per la “scrofolosi”, considerata inguaribile, la terapia praticata consistette nel contatto della mano destra nuda del sovrano sulla piaga infetta dell’ammalato. I primi a esercitare tale attività di cura furono, in Francia, Roberto II il Pio, in Inghilterra Edoardo il Confessore, in Italia, alla fine del XIII secolo, Carlo I d’Angiò, Re di Sicilia e Gerusalemme.
La storia delle malattie, mirabilmente ricostruita da Jacques Le Goff, intreccia non da oggi la storia politica e soprattutto la storia delle metafore della politica: dalla metafora del potere che “salva gli altri” dalla malattia (il “Re taumaturgo”, studiato da Marc Bloch) alla metafora del potere che “si salva” dalla malattia (il “doppio corpo del Re”, ricostruito da Ernst H. Kantorowicz.
In effetti, per secoli, i concetti della sovranità, prima, e quello dello Stato, poi, sono stati animati da una delle più potenti metafore “claustrofobiche”: il potere come “corpo politico” che, proteggendosi, protegge; protegge i suoi sudditi e i suoi Cittadini dai “mali” della guerra, delle invasioni, delle malattie. Del resto, com’è noto (si pensi al fondamentale contributo di Émile Benveniste nel suo Vocabulaire des institutions indo-européennes), il confine della sovranità statale segna la linea della regolazione spaziale della protezione dal “male” e dunque anche dalla “malattia”.
Tale protezione, tuttavia, si è a sua volta alimentata della metafora dell’“evento”, soprattutto dopo la secolarizzazione della teologia politica e l’affermazione del costituzionalismo come cultura delle regole giuridiche che disciplinano appunto “eventi” solo umani. Qualsiasi “male”, per il soggetto “costituzionalizzato”, non può che consistere in “eventi” a lui ostili: “eventi” tra umani (guerre, invasioni, violenze, violazioni di diritti, abusi di potere ecc…) oppure “eventi” naturali (malattie, catastrofi, terremoti, inondazioni ecc…).
Ora, rispetto a questa prospettiva costituzionale, l’esperienza contemporanea del Covid-19 disvela una novità drammatica: l’“evento” del virus riflette, in realtà, una “condizione malata” senza confini, perché riferita all’intero pianeta Terra; e questo, non solo perché il virus circola ben oltre la sovranità degli Stati.
Quella provocata dal Coronavirus, infatti, fa parte delle cosiddette “malattie emergenti” – come, per esempio, Ebola, SARS, Zika, influenza aviaria o suina – caratterizzate dal fatto di manifestarsi non come “eventi” casuali bensì come “processi” ricorrenti di degrado ecosistemico dell’intero globo terrestre, accelerati dalla globalizzazione degli scambi commerciali e dal cambiamento climatico. Le zoonosi, ovvero le malattie trasmesse dagli animali all’uomo (esattamente come il Covid-19), sono conseguenza di diversi comportamenti errati dell’essere umano nei confronti della natura: dal commercio illegale o non controllato di specie selvatiche, all’inquinamento atmosferico, al più generale impatto dell’azione umana sugli ecosistemi naturali, con perdita di biodiversità e degrado ambientale: pandemie e perdita di biodiversità sono interconnesse, ricorda il WWF); come sono interconnessi inquinamento e diffusione dei virus, avverte la Società Italiana di Medicina Ambientale; al pari di pandemie e cambiamenti climatici antropogenici, come attestano diverse ricerche, sintetizzate dalla presa di posizione scientifica pubblicata su PNAS. Lo ammette ufficialmente persino l’UNEP.
Ecco allora che l’“evento” del Coronavirus, connesso alla “condizione” dei cambiamenti climatici e alla perdita catastrofica di biodiversità, rivela i limiti delle metafore politiche della “salvezza”, offerta dal sovrano.
Un recente originale studio di Stefanie R. Fishel ipotizza l’insorgenza dello “Stato microbico”: dalla “natura dello Stato” (come corpo politico chiuso e sovrano) si dovrebbe transitare allo “Stato nella natura” (dentro il “corpo” del pianeta Terra); e questo proprio perché metafore della politica e finzioni giuridiche si starebbero ormai infrangendo sulle dure rocce della “naturalità” della complessità del sistema terrestre.
Proprio come il corpo umano non è separato dagli altri corpi – compresi microbi, batteri, virus, ecosistemi, clima – anche la politica “corporea” dello Stato (come “sovranità”) dovrebbe prendere atto di vivere dentro un denso intreccio con altre comunità e forme di vita.
La sopravvivenza dello Stato, in definitiva, non dipenderebbe più da sé: “chiudersi” rispetto al “male” non salva.
La “sovranità”, per quanto predicata come metafora politica e declinata nelle sue finzioni giuridiche di atti e norme con il loro linguaggio e le loro narrazioni anche costituzionali, non sarebbe più efficace sul piano della realtà “naturale”: può (forse) ancora “salvare” da un “evento” (il virus), ma non salva più dalla “condizione” (il degrado che alimenta i virus). Non a caso, nella “guerra”, come è stata chiamata, al Coronavirus, chi condiziona la “sovranità” sul corpo è il virus, non più lo Stato: lo Stato inesorabilmente (anche se “sovranamente”) asseconda.
L’Antropocene disvela dunque un ulteriore doppio scenario disarmante: la scoperta della identità “microbica” della politica e del diritto (si veda la interessante recensione in Contemporary Political Theory); e il carattere “ecologico” della “malattia” (istruttiva, in proposito, la premonizione di Jim Robbins).
Ma come salvarsi dal “male” sconfinato della “condizione microbica”, produttiva di “eventi” virus? L’economista austriaco Christian Felber, fondatore del movimento internazionale della “Economia del Bene Comune”, ipotizza una prospettiva tanto interessante quanto difficilmente praticabile. La spiega nel libro entusiasticamente intitolato Si può fare!.
La sua analisi parte dalla constatazione che il commercio internazionale costituisca una variabile determinante e ineliminabile della condizione globale dell’umanità.
Essa, però, è sempre stata classificata all’interno di una perenne dicotomia: da una parte, il libero mercato globale, che trasforma il commercio in un fine in sé (nella visione dell’ineluttabile “Kosmos”, pontificato da F.A. von Hayek); dall’altra, il protezionismo, che considera il commercio internazionale il “male” da contenere da parte dello Stato.
Secondo Felber, esisterebbe una terza ipotesi di praticare globalmente il commercio: quella che non mette al centro i profitti ma gli interessi comuni delle persone (in questo senso, il “bene comune”) per la loro sopravvivenza.
Dopo aver ripercorso le tappe fondamentali della “religione” del libero commercio che domina da Adam Smith in poi come metafora moderna della “salvezza”, Felber espone il suo modello in cui il commercio viene messo al servizio dei “valori fondamentali” di “salvezza” dell’intera umanità, riferiti ai diritti umani, alla lotta al cambiamento climatico, al rispetto dell’ambiente, alla eliminazione del crescente divario tra ricchi e poveri.
Propone, poi, l’idea di una “zona di commercio etico”, costituita solo dagli Stati che rispettano, appunto, i diritti umani, gli accordi dell’ONU, gli obiettivi dello sviluppo sostenibile ecc… All’interno di questa “zona”, tali Stati potrebbero commerciare liberamente tra loro, neutralizzando il dumping in ogni ambito e proteggendosi da quanti lo praticano: lasciando fuori il “male”.
Si tratta di una ipotesi simile a quella del premio Nobel dell’economia William Nordhaus sul c.d. “Club del clima”.
E potrebbe essere un’ipotesi realisticamente perseguibile dentro la Unione europea, in quanto unica integrazione sovranazionale “sostitutiva”, effettivamente funzionante al mondo.
La prospettiva, tuttavia, per quanto correttamente consideri quella del commercio globale una variabile determinante e ineliminabile, trascura due altre variabili, altrettanto determinanti e ineliminabili, ulteriormente rese evidenti dalla “condizione” malata del Mondo:
- da un lato, lo Stato, dalla cui sovranità – nonostante la scoperta della sua costituzione “microbica” – dipende la possibilità stessa della “zona di commercio etico” (in un mondo in cui solo la minoranza degli Stati è democratica e rispetta, più o meno, i diritti umani, quanti Stati accetterebbero il “commercio etico” in nome della democrazia e dei diritti umani, resistendo alla pressione degli interessi economici globali, arricchiti e favoriti dalle pratiche di dumping ambientale e sociale?);
- dall’altro, i “Planetary Boundaries” della sostenibilità, ormai superati e quindi già “malati” (siamo sicuri che una “zona di commercio etico” – inevitabilmente ristretta all’interno di un mondo non democratico e non rispettoso dei diritti umani – salverebbe il pianeta Terra dalla catastrofe? Si vedano, in proposito, le poco rassicuranti proiezioni dello Stockholm Resilience Center).
Alla luce della considerazione di queste due ulteriori variabili determinanti e non eliminabili (entrambe sostanzialmente “microbiche”, nel significato del libro della Fischel), la prospettiva di Felber sembra concretizzabile solo come modalità “sovranazionale” di neo-protezionismo commerciale e “autotutela costituzionale”: più che una terza via, una via aggiornata di un modello già noto di “claustrofobica salvezza”, che tuttavia resta pur sempre “microbica”, dunque insufficiente di fronte alle sfide del degrado “planetario”.
Dalle metafore della salvezza è difficile emanciparsi: forse esse rappresentano anche una forma “taumaturgica” di esercitare il potere su noi stessi, per “salvarci”.