Il tema degli assegni vitalizi previsti in favore degli ex parlamentari fa sempre discutere. L’ultima diatriba in ordine di tempo è sorta per via di un articolo, pubblicato su Il Fatto quotidiano del 30 gennaio scorso, nel quale si anticipa l’esito della decisione che la Commissione contenziosa del Senato assumerà in ordine al ricorso presentato da oltre 700 ex senatori avverso il taglio dei trattamenti in essere, avviato a decorrere dal 1° gennaio dello scorso anno. Decisione che, secondo il Fatto, sarebbe già stata assunta e che andrà nella direzione di ripristinare i precedenti importi. Nelle ore immediatamente successive si è così accesa una forte polemica tra le diverse forze politiche, alcune delle quali hanno prontamente difeso le ragioni che hanno condotto all’approvazione della contestata delibera e stigmatizzato la decisione del collegio giudicante, mettendone in discussione persino la legittimazione a causa, principalmente, della carenza di terzietà dei suoi componenti. Di lì a poco è stata quindi convocata una manifestazione, programmata per il 15 febbraio 2020 a Roma, al fine di protestare contro il ripristino dei trattamenti spettanti agli ex senatori.
Per poter inquadrare adeguatamente la questione occorre fare un passo indietro. Anzitutto, è bene precisare che all’ordine del giorno non c’è alcun ripristino dei vecchi vitalizi, come pur sembrerebbe evincersi dalle notizie riportate dai media. Oggetto del contendere è invece la delibera assunta il 16 ottobre 2018 dal Consiglio di Presidenza del Senato in ordine alla rideterminazione degli importi degli assegni vitalizi relativi al mandato svolto sino al 31 dicembre 2011. Attraverso tale delibera, il Consiglio di Presidenza ha ricalcolato gli importi degli assegni vitalizi in essere, diretti e di reversibilità, nonché delle quote pro rata con il metodo contributivo in luogo del precedente metodo di tipo retributivo. Il tutto limitatamente agli importi maturati sino al 31 dicembre 2011, in quanto a decorrere dal 1° gennaio 2012 è entrato in vigore il nuovo Regolamento delle pensioni dei senatori, approvato nel medesimo mese di gennaio 2012. Regolamento che ha soppresso i vecchi assegni calcolati con metodo retributivo e li ha sostituiti con un trattamento previdenziale modellato su quello vigente per i dipendenti della pubblica amministrazione e basato sul metodo contributivo.
La delibera del 2018, la quale ricalca pressoché fedelmente quella analoga adottata dall’Ufficio di Presidenza della Camera giusto qualche mese prima (luglio 2018), ha quindi determinato un taglio notevole degli importi dei trattamenti in essere – in alcuni casi pari anche al 50 per cento dell’assegno mensile – e un risparmio di circa 45 milioni all’anno alla Camera e 22 milioni al Senato. Sennonché, a seguito dell’entrata in vigore delle citate delibere, numerosi ex senatori percettori di assegno vitalizio hanno presentato ricorso, lamentando l’illegittimità della delibera che avrebbe operato una riforma previdenziale con effetti retroattivi, in palese contrasto con il principio del legittimo affidamento richiamato dalla giurisprudenza costituzionale in materia.
Orbene, il primo aspetto meritevole di attenzione è che sulle delibere degli Uffici di Presidenza, adottate in ossequio al principio dell’autonomia normativa ed amministrativa delle Camere, il giudice ordinario non è competente, in virtù del correlato principio dell’autodichia o giurisdizione domestica che riserva all’organo costituzionale stesso il potere di giudicare sulle controversie aventi ad oggetto i ricorsi del personale dipendente e sulla legittimità degli atti deliberati dagli Uffici di Presidenza. Ai sensi dell’articolo 72 del testo unico delle norme regolamentari dell’Amministrazione riguardanti il personale del Senato della Repubblica, infatti, il giudice competente in materia è la Commissione contenziosa, la quale più in generale è chiamata a pronunciarsi su: a) i ricorsi presentati dai dipendenti del Senato, in servizio o in quiescenza, contro gli atti e i provvedimenti dell’Amministrazione, nonché i ricorsi contro le procedure di reclutamento del personale; b) i ricorsi presentati avverso gli atti e i provvedimenti amministrativi adottati dal Senato, diversi da quelli di cui alla lettera a). Ricorsi che possono essere presentati a tutela dei diritti e degli interessi legittimi e solo per motivi di legittimità e che danno luogo a delibere appellabili presso l’organo di secondo grado, il Consiglio di Garanzia, che a norma dell’articolo 75 del richiamato testo unico decide sui ricorsi presentati contro le decisioni della Commissione contenziosa.
Da quanto detto ne consegue che l’aver sottoposto la questione dei vitalizi al giudizio dell’organo di giustizia interna del Senato della Repubblica non deve destare scandalo, in quanto ciò rientra appieno nella fisiologia dell’ordinamento costituzionale vigente: le delibere del Consiglio di Presidenza di Palazzo Madama, per l’appunto, possono essere impugnate esclusivamente presso la Commissione contenziosa e questo aspetto – nient’affatto secondario, bensì dirimente, come si vedrà tra un momento – era noto sin dal principio, sin da quando cioè si è deciso di operare il ricalcolo degli assegni vitalizi attraverso una delibera del Consiglio di Presidenza. Perché stupirsi, dunque?
A tal proposito, è stato però obiettato che il collegio giudicante non sarebbe dotato dei necessari caratteri di terzietà, indispensabili per poter giudicare senza trovarsi nella condizione dello iudex in causa sua. Ad oggi, infatti, la Commissione contenziosa risulta essere composta dai senatori Giacomo Caliendo, Simone Pillon e Alessandra Riccardi, nonché dal dott. Cesare Martellino, magistrato di Cassazione e già Procuratore Capo della Repubblica presso il Tribunale di Terni, e dall’avvocato Alessandro Mattoni, e presieduta dallo stesso senatore Caliendo. Quest’ultimo, a differenza dei senatori Pillon e Riccardi, entrambi al primo mandato, è in Parlamento dal 2008 e pertanto potenzialmente destinatario delle norme sui vitalizi oggetto del ricorso.
Sebbene il rilievo non sia del tutto infondato, occorre evidenziare che la Commissione contenziosa, a norma dell’articolo 72 del testo unico, è composta in modo da assicurare decisioni basate su ragioni di diritto. Essa si compone infatti di tre senatori, nominati dal Presidente del Senato all’inizio di ogni legislatura e scelti tra magistrati delle magistrature ordinaria e amministrative, professori universitari di prima o seconda fascia in discipline giuridiche, avvocati dello Stato o avvocati del libero foro, e da due ulteriori componenti, nominati anch’essi dal Presidente, e scelti tra magistrati a riposo delle supreme magistrature ordinaria e amministrative, professori ordinari di università in materie giuridiche, anche a riposo, e avvocati dopo venti anni di esercizio della professione. Per inciso, si noti che il Presidente della Commissione Caliendo è un magistrato, già sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Si consideri inoltre che i componenti della Commissione durano in carica per tutta la legislatura, salvo dimissioni spontanee, e che il loro incarico è incompatibile con quello di membro del Consiglio di Presidenza, del Consiglio di garanzia e del Consiglio di disciplina. Si tratta di un organo la cui composizione è pertanto fissa per tutta la durata della legislatura e insuscettibile di mutamenti ad hoc. Ma quel che preme evidenziare è che la composizione del collegio era nota al momento di adottare la delibera impugnata, la quale è stata approvata dal Consiglio di Presidenza nella seduta del 16 ottobre 2018, a distanza di alcuni giorni dalla nomina dei componenti della Commissione contenziosa e dello stesso Caliendo (5 ottobre 2018). All’atto di decidere, dunque, il Consiglio di Presidenza era perfettamente a conoscenza non soltanto del fatto che la delibera sarebbe stata eventualmente impugnata presso la Commissione contenziosa, ma altresì che detta Commissione era composta – e presieduta – dal senatore Caliendo (eletto Presidente il 10 ottobre 2018).
Una valutazione di opportunità, quindi, avrebbe richiesto di operare scelte diverse a monte, non certo a valle. Del resto, le alternative concrete non mancavano di certo. Anzitutto, le Camere avrebbero potuto intervenire sulla materia per mezzo di un atto di rango legislativo anziché procedere con una delibera degli Uffici di Presidenza. Senza entrare nel merito della dibattuta questione della fonte normativa competente a disciplinare la previdenza dei parlamentari, si poteva fare tesoro del precedente della scorsa legislatura nella quale si tentò di approvare una proposta di legge dell’on. Richetti, recante Disposizioni in materia di abolizione dei vitalizi e nuova disciplina dei trattamenti pensionistici dei membri del Parlamento e dei consiglieri regionali (Atto Camera 3225). La proposta, approvata dalla Camera dei deputati ma non anche dal Senato per via della conclusione della legislatura, prevedeva anch’essa la rideterminazione degli importi dei vitalizi e dei trattamenti previdenziali in essere mediante il sistema contributivo. Oltre al diverso regime di pubblicità, l’approvazione di una legge avrebbe consentito di chiamare in causa il Presidente della Repubblica, in sede di promulgazione, e soprattutto la Corte costituzionale in un eventuale giudizio di costituzionalità, anziché demandare la questione agli organi dell’autodichia.
In secondo luogo, quand’anche si volesse propendere per la tesi secondo cui la previdenza dei parlamentari sarebbe materia riservata alle fonti dell’autonomia parlamentare, va precisato che la sottrazione alla giurisdizione comune del giudizio sulla legittimità delle delibere degli organi interni di vertice – così come delle controversie tra le amministrazioni parlamentari e i loro dipendenti – trova il suo fondamento nella potestà normativa ed amministrativa connessa alla sfera di autonomia propria degli organi costituzionali e, segnatamente, nelle norme interne che assegnano agli organi dell’autodichia il giudizio sui ricorsi presentati avverso gli atti e i provvedimenti amministrativi adottati dalle due Camere. Norme che possono essere sempre oggetto di un ripensamento, benché la recente pronuncia della Corte costituzionale in tema di autodichia abbia messo un punto fermo in favore della conformità a Costituzione di tale istituto. Il giudice delle leggi ha infatti evidenziato che l’autodichia costituisce manifestazione tradizionale della sfera di autonomia riconosciuta agli organi costituzionali e che «gli organi di autodichia sono chiamati a dirimere, in posizione super partes, controversie tra l’amministrazione dell’organo costituzionale e i suoi dipendenti secondo moduli procedimentali di carattere giurisdizionale, e dunque a svolgere funzioni obiettivamente giurisdizionali per la decisione delle controversie in cui siano coinvolte le posizioni giuridiche soggettive dei dipendenti. Non a caso, questa Corte ha già riconosciuto che il carattere oggettivamente giurisdizionale dell’attività degli organi di autodichia, posti in posizione d’indipendenza, li rende giudici ai fini della loro legittimazione a sollevare questioni di legittimità costituzionale delle norme di legge cui le fonti di autonomia effettuino rinvio» (sentenza 13 dicembre 2017, n. 262). Nulla impedisce, tuttavia, che le Camere nella loro autonomia normativa ed amministrativa decidano di demandare al giudice comune la valutazione sulla legittimità di atti e delibere adottati in sede di Uffici di Presidenza, quanto meno qualora si tratti di delibere dalla valenza non meramente amministrativa o interna.
A chi infine contesta semplicemente il fatto che gli ex senatori abbiano presentato un ricorso contro la delibera che ha operato il ricalcolo dei vitalizi, occorre far notare che la Costituzione prevede che contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. In conclusione, a parlamentari ed ex parlamentari non può essere di certo precluso il ricorso ad un giudice per la tutela delle proprie situazioni giuridiche soggettive: in uno Stato di diritto, ogni decisione presa da un pubblico potere deve essere conforme alle norme vigenti e, se vi sono dubbi in proposito, l’interessato deve essere sempre messo in condizione di adire un giudice per far valere i propri diritti.
* Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e istituzioni politiche comparate -Università di Roma La Sapienza