L’articolo con cui Salvatore Curreri ha sollevato la questione dello scioglimento della componente Cambiamo! – 10 Volte Meglio, all’interno del gruppo misto della Camera, ha il merito di invitare all’attenzione su un problema per nulla secondario: la possibilità che soggetti politici rimasti al di fuori delle aule parlamentari (e, per giunta, molto lontani dalle percentuali che avrebbero consentito l’ingresso) determinino la nascita e – in questo caso – la morte di un’articolazione interna alle Camere, con inevitabili riflessi sulla posizione delle stesse e dei loro componenti.
Mentre si attende di sapere se l’amministrazione della Camera svelerà chi, come legale rappresentante di 10 volte meglio, ha “disconosciuto” la componente del misto provocandone lo scioglimento (permettendo di capire se si tratti di una persona eletta o esterna), è bene ripercorrere il cammino che ha portato fin qui. Una cosa, infatti, è certa: da ormai quindici anni (l’anniversario cade tra meno di un mese) capita che partiti politici che in Parlamento non hanno messo piede consentano di far nascere componenti alla Camera, infilandosi in regole scritte con altra intenzione.
Al solito, all’origine degli eccessi interpretativi e applicativi ci sono buone intenzioni che però – lo ricorda Curreri – finiscono per lastricare ogni strada che porti all’inferno. Il 24 settembre 1997 l’aula della Camera approvò la modifica al regolamento (inserendo il comma 5 dell’art. 14) che consentiva al presidente di accogliere le richieste di istituire componenti interne al gruppo misto di almeno dieci deputati e anche di accontentarsi di un numero minore, «purché vi aderiscano deputati, in numero non inferiore a tre, i quali – si leggeva e si legge tuttora – rappresentino un partito o movimento politico, la cui esistenza, alla data di svolgimento delle elezioni per la Camera dei deputati, risulti in forza di elementi certi e inequivoci, e che abbia presentato, anche congiuntamente con altri, liste di candidati ovvero candidature nei collegi uninominali».
Sul testo, approvato con 471 voti a favore e 11 contro, aveva lavorato a lungo la Giunta per il regolamento presieduta da Luciano Violante. Innestandosi sul dibattito iniziato un anno prima sulla possibilità di concedere pure ai deputati delle minoranze linguistiche di formare un gruppo con meno di venti eletti, il comparatista Paolo Armaroli (eletto con Alleanza nazionale) aveva avanzato una proposta, mutuata dalla disciplina spagnola: come spiegò in Giunta il 12 settembre 1996 Mario Tassone (Cdu), cofirmatario dell’emendamento, era più opportuno individuare strumenti per «attribuire alle componenti politiche del gruppo misto […] una adeguata visibilità, senza giungere alla costituzione di apposito gruppo». Si voleva evitare una moltiplicazione dei gruppi, che avrebbe fatto lievitare le spese e costretto a rivedere la composizione dell’Ufficio di presidenza e della Conferenza dei capigruppo; si prendeva però anche atto di una situazione nata nella XII legislatura.
Nel 1994, infatti, dopo le prime elezioni tenute col sistema elettorale misto Alleanza democratica, Partito socialista italiano e Patto Segni avevano ottenuto più di dieci deputati, ma meno di venti e il 28 aprile l’Ufficio di presidenza non aveva autorizzato la nascita di gruppi in deroga. Il giorno prima, la riunione della Giunta per il regolamento (presidente Irene Pivetti) si era chiusa con un insanabile contrasto tra chi riteneva inapplicabile al Parlamento frutto della nuova legge elettorale il testo dell’art. 14, comma 2, che per la concessione della deroga dettava condizioni e usava concetti proporzionali senza più riscontro nella nuova disciplina a prevalenza maggioritaria, e chi invece ne proponeva un’interpretazione estensiva che avrebbe consentito la sua applicazione: non andò in soccorso di questa tesi il fatto che Ad e Psi avessero ottenuto eletti solo nei collegi uninominali (e sotto le diverse insegne dei Progressisti) e che, incidentalmente, tutti e tre i partiti fossero collocati all’opposizione rispetto al nascente governo Berlusconi, che ricevette l’incarico giusto il giorno in cui la richiesta di costituire gruppi in deroga fu bocciata. Gli eletti di quelle formazioni erano rimasti tutti nel gruppo misto, composto già allora da 50 membri, frazionati in compagini nutrite e disaccordo tra loro; sarebbe andata peggio in seguito, tra ribaltoni e scissioni, anche in una legislatura breve come quella. Nella XIII legislatura il problema riemerse, così si adottarono nuove regole che consentissero alle componenti «di esplicare pienamente l’attività politica parlamentare – così si legge nella relazione alle modifiche regolamentari – nella forma più ampia e attraverso la più larga disponibilità di strumenti compatibile con l’ordinato ed efficace svolgimento dei lavori della Camera».
L’aver concesso a compagini di almeno dieci deputati la costituzione di una componente, magari frutto dell’accordo di partiti diversi (anche nati in corso di legislatura) poteva tutt’al più far storcere la bocca a chi non apprezzava manovre di mera convenienza, senza reali ragioni politiche; creò presto problemi, invece, la possibilità di autorizzare la nascita di componenti con almeno tre deputati. Queste ultime, tra l’altro, godono quasi degli stessi vantaggi riconosciuti alle componenti più consistenti, in termini di tempo per gli interventi in aula e soprattutto di dotazioni e contributi: quelli assegnati al gruppo misto sono «determinati avendo riguardo al numero e alla consistenza delle componenti politiche in esso costituite, in modo tale da poter essere ripartite fra le stesse in ragione delle esigenze di base comuni e della consistenza numerica di ciascuna componente» (art. 15, comma 3, innovato contestualmente al riconoscimento delle componenti). Banalmente, dunque, ai deputati conviene organizzarsi in componenti, perché possono contare su più fondi per l’attività e i collaboratori da assumere, più personale e più spazi rispetto alla condizione di chi non fa parte di alcuna componente.
I relatori della modifica ritennero che, per «dimostrare la sussistenza di un movimento organizzato e diffuso nel Paese» servissero requisiti di natura politica, cioè segni «certi e inequivoci» dell’esistenza del soggetto politico, come «un simbolo, una denominazione, un’attestazione documentaria o, comunque, una qualche forma di notorietà», e la partecipazione all’ultimo voto; si giudicò però necessario anche che alla componente aderissero almeno tre deputati, «il minimo possibile per la costituzione di un organismo avente carattere collegiale, non espressivo, cioè, di mere individualità». La disposizione pareva chiaramente scritta per dare visibilità, spazio e mezzi ai partiti che dalle elezioni avevano ottenuto alla Camera una presenza tangibile (3 deputati equivalgono quasi allo 0,5% del plenum di Montecitorio); il testo poi sembrava richiedere espressamente che i tre eletti dovessero davvero rappresentare il partito che beneficiava della deroga, come iscritti o almeno candidati. Di solito, in effetti, alcuni eletti nei collegi uninominali chiedevano di formare una componente col nome del partito che li aveva candidati nel proporzionale, ma non aveva superato lo sbarramento.
Nella XIV legislatura, però, la nuova disposizione del regolamento fu letta – in costanza di legge elettorale – in modo assai estensivo. Capitò per esempio che le componenti in deroga sorgessero a una certa distanza dalle elezioni (come quella dell’Udeur, nata a metà del 2002 dopo l’uscita del partito dal progetto della Margherita) o addirittura in prossimità della fine della legislatura, come accadde con il Movimento dei Repubblicani europei (la componente nacque l’8 febbraio 2006, le elezioni si tennero il 9 e il 10 aprile); nessuno dei tre aderenti, peraltro, era candidato con il Mre.
Soprattutto, però, il 10 febbraio 2005 – ecco la data che si diceva – Gianfranco Rotondi e altri due deputati ex Udc furono autorizzati a costituire una componente per dare autonoma sistemazione alla Democrazia cristiana (poi Dc per le autonomie) costituita da Rotondi nel 2004, tre anni dopo le elezioni: qualcuno – non si sa chi – aveva suggerito di far figurare tale componente come rappresentativa di un altro partito che aveva concorso nel 2001 e per quell’operazione furono scelti i Verdi-Verdi, partito ecologista nato nel 1990, dal 1994 in rapporti col centrodestra e presentatore di una lista per la quota proporzionale nella sola circoscrizione Piemonte 1. La decisione, peraltro, ebbe risvolti grotteschi: dal 1992 i Verdi (quelli del sole che ride) ritenevano che l’etichetta «Verdi-Verdi» (quelli dell’orsetto che sorride) si potesse confondere con la loro e nel 2004, in qualche modo, il Consiglio di Stato aveva dato loro ragione, quindi erano pronti a dare battaglia; la componente nacque «grazie alla santità democristiana di Casini» (parole dichiarate da Rotondi alla Repubblica) con il nome «Ecologisti democratici»: nel resoconto del 10 febbraio, infatti, si legge che il presidente della Camera aveva valutato «la denominazione indicata, tenendo conto, al riguardo, delle dichiarazioni dei richiedenti, affinché non si presti ad obiezioni di carattere giuridico, nonché sul piano del buon andamento dell’attività parlamentare». Quella componente, dunque, sorse senza il nome del partito che aveva permesso la deroga, ma anche senza quello della Dc: forse né Rotondi né Casini (Udc) volevano mettere altra carne al fuoco di una contesa politica e giuridica già complessa.
Quell’episodio confermò, di fatto, che pure un gruppo politico che non aveva partecipato alle ultime elezioni politiche (magari perché era nato più tardi) poteva avere la sua componente nel gruppo misto: bastava sostenere di rappresentare un partito che aveva presentato candidature pur senza ottenere eletti, evidentemente con l’assenso esplicito di quest’ultimo. Nelle legislature successive lo stesso meccanismo si ripeté più volte, come sempre Salvatore Curreri ha meticolosamente ricordato in passato su queste pagine (proprio quando era nata la componente Sogno Italia – 10 Volte Meglio, alla base di quella appena sciolta): un meccanismo reso possibile da formazioni note soprattutto agli entomologi della politica – quali Pli, Lega Sud Ausonia, Ppa, Pri, Tutti insieme per l’Italia – tutte accomunate dalla partecipazione più o meno marginale alle elezioni, senza aver ottenuto eletti.
Se sono chiare le ragioni che suggeriscono ai nuovi gruppi politici questa soluzione, che rispetta solo formalmente la lettera del regolamento parlamentare, quali sono quelle dei soggetti che “riconoscono” le componenti e prestano la propria denominazione? È facile immaginare che operazioni simili portino visibilità al partito che consente la formazione della compagine: il nome viene pronunciato in aula e appare nei resoconti, è più facile organizzare eventi e conferenze stampa o far presentare proposte di legge ed emendamenti che interessano. Capita persino di partecipare alle consultazioni al Quirinale, come accadde ad Antonio Piarulli, leader del movimento Politico Pensiero e Azione (una sola lista nel 2013, in Piemonte 2): il 9 dicembre 2016, dopo le dimissioni di Matteo Renzi da Palazzo Chigi, partecipò al colloquio con Sergio Mattarella rappresentando la componente Movimento Ppa – Moderati (con lui – che non rilasciò dichiarazioni alla stampa – c’erano il senatore Michelino Davico e il deputato Nello Formisano, entrambi approdati ai Moderati in corso di legislatura, ma non Giacomo Portas, leader dei Moderati rimasto nel gruppo del Pd alla Camera).
A volte, poi, avere una componente porta doni inattesi. Il discusso decreto-legge n. 24/2008, tra l’altro, esonerò dalla raccolta firme per le elezioni politiche di quell’anno ogni partito che avesse avuto due eletti al Parlamento europeo o in una delle Camere (in sede di conversione si estese il beneficio ai partiti che contavano su un senatore e un deputato); bastava che il segretario dichiarasse che il partito era rappresentato da quegli eletti. Le componenti del misto della Camera resero più facile dimostrare che un partito era presente in Parlamento: ne approfittò il Partito liberale italiano di Stefano De Luca che, grazie alle poche liste presentate un anno prima, aveva fatto nascere il 16 marzo 2007 la componente «Repubblicani, liberali, riformatori», cui avevano aderito Giorgio La Malfa, Francesco Nucara e Giovanni Ricevuto (esponenti del Pri e del Nuovo Psi, tutti eletti in Forza Italia). Prima delle elezioni politiche del 2018 avevano previsto l’esenzione per le componenti anche alcuni emendamenti alla “legge Rosato” presentati da deputati di Direzione Italia e Civici e innovatori (due componenti, guarda caso): a dispetto di un primo orientamento, però, non sono stati approvati. I partiti privi di gruppo si sono accontentati del “regalo di Natale” della riduzione delle firme necessarie a un quarto del numero previsto dalla legge. Quelle firme, per capirci, che i promotori di 10 Volte Meglio sono riusciti a raccogliere, presentando un po’ di liste e, in questo modo, permettendo a Sogno Italia e a Cambiamo! di costituire la loro componente. Fino a revoca del riconoscimento, ovviamente.