È stata pubblicata oggi la sentenza definitiva della Corte costituzionale sul “caso Cappato” (sent. 242/2019). Tutto (o quasi) in realtà era stato già deciso con ordinanza n. 207 del 16 novembre 2018: ma allora la Corte aveva preferito sospendere la decisione invitando il legislatore ad intervenire sulla disciplina dell’aiuto al suicidio con un’apposita legge. Il che, al solito, non è avvenuto: così ora la disciplina la deve dettare la stessa Corte (poi magari qualche politico si lamenterà dei giudici che invadono il campo della politica…).
Nella sentenza odierna non c’è molto di più di quanto la Corte scriveva nell’ordinanza di un anno fa: il divieto penale dell’aiuto al suicidio resta fatto salvo come regola generale, a cui però si può derogare se ricorrono alcune condizioni. L’incostituzionalità coinvolge soltanto l’aiuto al suicidio «prestato a favore di soggetti che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza» (legge n. 219 del 2017, art. 1.5), che prevede una “procedura medicalizzata” che ora viene estesa a chi richiede di morire. Quindi, non è punibile chi, con le modalità previste dalla legge 219/2017, «agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».
Un dispositivo lungo, come si vede, per poter contenere la disciplina necessaria a risolvere il problema e consentire a chi non ce la fa più a chiedere un aiuto a morire: ovviamente sempre in attesa che il legislatore italiano si decida a disciplinare compiutamente questo delicatissimo problema.
Due regole ulteriori vengono fornite dalla sentenza della Corte.
La prima riguarda i casi sorti prima dell’emanazione della sentenza (come lo stesso “caso Cappato”): la non punibilità dell’aiuto al suicidio è subordinata al fatto che l’agevolazione sia stata prestata con modalità anche diverse da quelle indicate ora dalla Corte, ma idonee comunque sia a “offrire garanzie sostanzialmente equivalenti”: che, dunque, il richiedente presenti una patologia irreversibile, grave sofferenza fisica o psicologica, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e capacità di prendere decisioni libere e consapevoli, e che su tutto ciò sia stato verificato dal medico; e che la volontà dell’interessato sia stata manifestata in modo chiaro e univoco, compatibilmente con quanto è consentito dalle sue condizioni; che il paziente sia stato adeguatamente informato sia in ordine a queste ultime, sia in ordine alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all’accesso alle cure palliative ed, eventualmente, alla sedazione profonda continua. Spetta al giudice verificare la sussistenza di questi requisiti nel caso concreto.
La seconda affronta il problema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario: problema rapidamente risolto perché la sentenza non crea alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici, ma «resta affidato alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato».