La decisione R. (on the application of Miller) v The Prime Minister; Cherry and others v. Advocate General for Scotland [2019] UKSC 41) della Corte Suprema britannica è ormai a tutti nota. Essa riguarda la legittimità della “prorogation” del Parlamento britannico disposta dalla Regina Elisabetta II su consiglio del Primo Ministro Boris Johnson. Nell’organizzazione costituzionale britannica la “prorogation” è quel periodo di tempo che intercorre tra una “session” e l’altra dell’attività parlamentare. La peculiarità della prorogation oggetto della decisione in commento riguardava la sua inusuale lunghezza. La motivazione pubblicamente addotta dal Primo Ministro, relativamente alla necessità di preparare un appropriato “Queen’s speech” (cioè il discorso letto dalla Regina all’inizio dell’attività parlamentare e predisposto dal Governo in carica) in vista del Brexit, è stata rigettata dalla Corte Suprema. Tale data era stata fissata il 14 ottobre, con la conseguente dilazione della prorogation di cinque settimane, tempo sottratto al Parlamento britannico, in particolare alla House of Commons, per la discussione delle iniziative governative in vista della scadenza del 31 ottobre 2019, data della prevista uscita del Regno Unito di Gran Bretagna dall’Unione Europea.
In realtà, questa decisione rappresenta un sintetico, ma ben argomentato trattato di diritto costituzionale sulla separazione dei poteri dello Stato e sul loro equilibrio, una specie di manuale che dovrebbe aiutare i primi ministri indisciplinati a non sconfinare nei giardini dei poteri altrui. Tuttavia, come spesso accade in tempi recenti, i titolari pro tempore del potere esecutivo non amano i lacciuoli posti dalle Costituzioni, siano queste scritte o non scritte, ma comunque rappresentative di quelle norme di buona condotta istituzionale che si dovrebbero fondare sulla reciproca lealtà nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, legislative e di governo.
Il punto analizzato dalla Corte Suprema verte sul rapporto costituzionale tra i poteri dello Stato, in particolare sulla reciproca legittimità dei rapporti tra Primo Ministro, Corona, Parlamento e Corte Suprema stessa. In particolare, se la Corte Suprema possa esprimersi sulle attività svolte nell’agone politico. La Corte Suprema risponde affermativamente a questa domanda: dato che Brexit modificherà l’assetto costituzionale britannico, è compito dei giudici supremi britannici vagliare la correttezza istituzionale dei passaggi prodromici al Brexit stesso.
Di fronte a un diritto costituzionale che ha mantenuto nel corso del tempo le sue peculiari caratteristiche di flessibilità e di lealtà reciproca tra gli attori presenti sul palcoscenico istituzionale (cioè, Parlamento, Governo, Corona, Suprema Corte), l’entrata in scena della voce popolare, al di fuori della rappresentanza elettiva, ma esplicitata attraverso la democrazia diretta, è stata irruenta e destabilizzante, dato che il referendum popolare è tradizionalmente sconosciuto in Common Law.
La consultazione elettorale costante e continua può avere un duplice effetto nefasto sul panorama politico istituzionale: da un lato essa rappresenta una forma di deresponsabilizzazione politica nei confronti di scelte istituzionali rilevanti; dall’altro lato può provocare il repentino mutamento di orientamento del consenso popolare, a seconda di promesse elettorali più o meno realizzabili. L’esperienza del precedente primo ministro Theresa May è stata significativa sul punto: nel tentativo di avvantaggiarsi politicamente, la signora May aveva esercitato il suo potere di indire elezioni anticipate nel 2017, le quali però avevano inaspettatamente mutato la solida maggioranza conservatrice in una faticosa alleanza di coalizione, con la conseguente triplice bocciatura da parte della House of Commons del deal negoziato con l’Unione Europea il 15 gennaio 2019, il 12 marzo 2019 e il 29 marzo 2019. Alla luce di ciò, va sottolineato che il popolo, o per lo meno la sua maggioranza, esprime la propria volontà indipendentemente dalla chiarezza del quesito referendario che gli viene sottoposto, e pretende l’attuazione del risultato così ottenuto. A questo proposito, la percezione collettiva di inadempimento della volontà popolare sta provocando una certa tensione sociale nel Regno Unito, infatti l’opinione pubblica fa fatica a comprendere quale sia lo scopo delle impugnazioni di fronte alle corti delle iniziative politiche.
Il corpo elettorale è al contempo oggetto e soggetto politico nel momento in cui viene continuamente sollecitato attraverso il ripetuto ricorso alle urne, sia con lo svolgimento di un referendum, sia per l’elezione dei rappresentanti negli organi istituzionali. Ad aggravare tale perversa parvenza di democrazia immediata vi è il continuo sondaggio della possibile volontà elettorale effettuata regolarmente da società di rilevamento d’opinione, dato che la divulgazione massiva di siffatte intenzioni, seppure campionate su una fascia ristretta della popolazione, influenza (e spesso incattivisce) il dibattito pubblico.
Quella sopra descritta è divenuta l’esperienza comune della politica attuale nelle democrazie occidentali, amplificata dall’uso costante dei social network e altri strumenti di interazione diretta tra il politico e il pubblico di suo riferimento. Ciò che sembra essere interessante, e meritorio di sommarie riflessioni, è l’interazione, e le possibili reazioni, tra una modalità di azione politica propagantistica immediata che si esprime prevalentemente attraverso ripetuti annunci e proclami e un sistema dalle regole storicamente consolidate, quasi statiche, come il Common Law inglese. Sotto il primo profilo, il politico sembrerebbe voler essere responsabile solo verso i suoi elettori, o per lo meno verso i suoi follower su Facebook, Instagram o Twitter. I suddetti follower, utilizzando ciascuno il proprio device (smartphone o laptop) condividono e diffondono il messaggio del “Capo”, quasi organizzandosi con i propri gruppi di account genuini o, non raramente, fake. Dall’altro lato, ciò che compie nel caso di specie la Corte Suprema britannica è richiamare il politico alla sua accountability, alla sua responsabilità verso l’organo rappresentativo del corpo elettorale nel suo complesso, cioè il Parlamento.
Nel caso di specie, il punto principale della sentenza della Corte Suprema verte sulla questionabilità della legalità di un atto strettamente riservato come l’advice, il consiglio, dato dal primo ministro britannico alla regina, sulla base del quale la sovrana ha concesso la prorogation successivamente dichiarata “unlawful, null and of no effect and should be quashed”.
Dato per scontato che i contenuti dei contatti intercorsi tra la regina e il suo primo ministro non sono oggetto di causa (non soltanto per via dell’immunità di cui gode la sovrana, ma per il rifiuto della Corte di occuparsi di questo tema), il punto concerne proprio il ruolo di questo primo ministro e di come ha gestito siffatta questione di natura politica.
Al fine di verificare la legittimità dell’advice dato dal primo ministro alla regina Elisabetta II, la Corte si è soffermata a lungo sulla questione della accountability, la responsabilità, del primo ministro verso il parlamento, e non verso gli elettori. Sul punto altresì si osserva che il primo ministro in carica non è stato votato in quanto tale dagli elettori, ma dai soli membri del suo partito, a seguito delle dimissioni di Theresa May.
Il principio di ordine costituzionale elaborato dalla decisione Miller/Cherry è riassumibile come segue: il primo ministro è necessariamente responsabile delle decisioni intraprese durante lo svolgimento della sua carica, e tra queste anche degli advice espressi alla Corona, rispetto all’organo rappresentativo del corpo elettorale, cioè il parlamento ove siedono i rappresentanti del popolo, quali esponenti della volontà popolare: è la democrazia parlamentare il fulcro della politica inglese, non la democrazia diretta, anche se è attraverso questa che il popolo si è espresso a favore del Leave in occasione del referendum del 2016. Alla luce di ciò, la Corte afferma che la responsabilità governativa va valutata alla luce del principio della separazione dei poteri e, dato che durante le udienze il governo non è riuscito a giustificare una prorogation così lunga, la Corte ha stabilito che il primo ministro ha ecceduto nell’esercizio dei suoi poteri, impedendo illegittimamente la normale attività di controllo parlamentare sul governo. Quale rimedio contro questo abuso, la Corte Suprema ha spazzato via la prorogation e ha dichiarato che l’attività parlamentare potesse riprendere immediatamente secondo le modalità stabilite dagli speaker della House of Lords e della House of Commons, che hanno immediatamente convocato i due rami parlamentari per la ripresa dell’attività politica.
Ciò che emerge da questa decisione è la continuità della sovranità parlamentare in Common Law. Essa rappresenta un lungo fil rouge che lega le istituzioni britanniche attraverso i secoli, nonostante nel corso del tempo siano accadute esperienze sovversive e violente. Tuttavia, al termine delle diverse fasi storiche, l’equilibrio istituzionale si è sempre assestato attorno al Parlamento quale fulcro essenziale dell’esperienza costituzionale britannica. Sembra che la Corte voglia dimostrare che tale centralità sia necessaria anche in tempi in cui il rapporto diretto e immediato tra politica e popolo pretende più considerazione, in particolare attraverso proclami populisti e uso disinvolto dei social network e delle piattaforme informatiche.
La decisione Miller/Cherry apparentemente sembra convincerci che l’apparato istituzionale formale britannico sia solido, nonostante da più parti ci si stia domandando se non sia giunto il tempo di redigere una costituzione scritta anche per il Regno Unito, un patto tra i consociati in grado di fronteggiare anche le tempeste in corso al di fuori delle mura di Westminster.
* Docente di diritto privato comparato presso l’Università Carlo Cattaneo di Castellanza
Non c’è alcuna democrazia diretta nel RU. Al di là della ‘prorogation’ – fatto grave ma risolto in modo rapido, facile e logico dalla Suprema Corte – nessuno mette minimamente in questione il potere sovrano del Parlamento, nemmeno il Primo Ministro, tranne il Parlamento stesso che per incapacità propria ha deciso oltre tre anni fa di riferire ad un verdetto popolare, peraltro qualificato, con massima cautela o ipocrisia, di solo consultivo. Il disastro britannico non è causato dai media o social o sondaggi, ma dalla precedente ed attuale Camera dei comuni! Johnson invoca giustamente il verdetto popolare tanto che non c’è una maggioranza del Parlamento opposta o quantomeno disposta ad indire un nuovo referendum per rovesciare il verdetto precedente. Johnson, l’impresentabile, è un prodotto dell’incapacità del Parlamento, esattamente come la decisione di Cameron era una tentata parata alle precedenti divisioni che indebolivano la maggioranza parlamentare. Il referendum non è stato un caso di democrazia diretta, ma un tentato plebiscito per eliminare gli avversari interni (l’attuale gruppo dominante) ed esterni (Farage e UKIP) dell’allora maggioranza. La malattia della democrazia britannica (che c’entra poco con la common law la quale ha ammesso e tenuto negli ultimi anni tre importantissimi referenda, uno sulla legge elettorale, un altro sull’appartenenza della Scozia al RU e l’ultimo sull’appartenenza del RU all’UE) non è la minaccia della democrazia diretta ma l’incapacità di agire coerentemente dei Comuni, salvati ora la seconda volta dalla signora Miller e dall’Alta Corte. L’opposto di quello che sostiene il per il resto interessante e preciso articolo in un’ottica un po’ troppo italo-centrica.