Il fatto che la possibilità di formare un nuovo Esecutivo sia dipesa dal voto online di qualche migliaia di iscritti al M5S non merita troppi commenti:
se non ci fosse di mezzo una questione capitale come il proseguimento della legislatura, sarebbe stato quasi da augurarsi un esito negativo della votazione.
Ciò avrebbe – forse – messo gli esponenti del Movimento di fronte alle loro responsabilità istituzionali, inducendoli ad un ripensamento del ruolo che la cosiddetta democrazia diretta può assumere in contesti come questi. I rappresentanti del popolo – la tanto bistrattata ‘casta’ – sono pagati per assumere con competenza e responsabilità decisioni nevralgiche per il Paese: rimbalzarle su uno sparuto numero di elettori, fuori da qualunque forma di controllo pubblico, e dopo aver già messo in moto le debite procedure costituzionali (che coinvolgono anche il Capo dello Stato), è semplicemente disdicevole. Come è inquietante che nessuno dei big del movimento abbia avuto la forza e l’autorevolezza politica per predicare l’inopportunità della votazione online.
Ma la cronaca ci porta a riflettere su un altro avvenimento, che coinvolge ancora in pieno il tema della democrazia interna dei partiti. Tutti sanno che la crisi di Governo è da addebitare a Matteo Salvini: è da sottolineare, però, che il Segretario della Lega sembra aver assunto la decisione di togliere la fiducia all’Esecutivo in piena autonomia, senza passare dalle procedure e dagli organi che lo stesso Statuto del suo partito imporrebbe. Si legge infatti all’art. 11 che: «Il Consiglio Federale (composto, tra gli altri, dal Segretario, dall’Amministratore e dal Responsabile Federale) determina l’azione generale della Lega per Salvini Premier, in attuazione della linea politica e programmatica stabilita dal Congresso Federale»
Pare che nessun Consiglio si sia riunito, nessun documento sia stato approvato, nessun dialogo ufficiale tra i soggetti del partito vi sia stato: Salvini – il cosiddetto ‘Capitano’ (e già questo appellativo dovrebbe far tristemente riflettere) – ha deciso di staccare la spina, senza alcun confronto interno al partito. Salvini non è il padrone della Lega, ne è solo il leader politico; ma un partito, per dirsi tale ed operare con il metodo democratico prescritto dalla Costituzione, dovrebbe caratterizzarsi da procedure formali che coinvolgano tutte le voci ‘dirigenziali’ che lo animano, soprattutto quando si tratta di assumere scelte fondamentali per la vita sua e del Paese. Se la Lega avesse rispettato il suo Statuto forse Salvini avrebbe agito con maggior prudenza: avrebbe ascoltato opinioni diverse dalle sue, sarebbe stato consigliato o comunque messo davanti ai rischi – politici e istituzionali – di una tale scelta; qualcuno avrebbe perfino potuto ricordargli il funzionamento di una Repubblica parlamentare.
Chiunque detenga il potere, ammoniva Montesquieu, prima o poi è portato ad abusarne: la democrazia interna ai partiti dovrebbe servire proprio a questo, a sottoporre ad un primo vaglio critico le scelte dei leaders, i quali dovrebbero essere contenti di circondarsi di persone competenti e anche critiche nei loro confronti, così da essere sempre controllati e mai tentati di andare fuori misura.
La responsabilità di quel che è successo è dunque tutta di Salvini, ma pure la classe dirigente del suo partito ha non poche colpe, avendo consentito all’uomo solo al comando – tanto caro all’animo anarchico di noi italiani – di regnare da monarca assoluto, salvo poi dover raccogliere i cocci dell’Esecutivo che fu.
Certo, la democrazia di un partito non può risolversi nelle continue risse interne a cui ci ha spesso abituato, per esempio, il PD (lo ricordava Bin qualche giorno fa): un conto è «la lotta tra galli nel pollaio», altro il leale e doveroso confronto che porta però ad una decisione definitiva e condivisa.
Viene in mente, e capita spesso a chi scrive, Montanelli: con una metafora un tantino eloquente, più volte si lamentò di un Italia che oscillava tra una destra che ricordava il «manganello», e una sinistra che evocava il «bordello». Chissà cosa direbbe oggi il vecchio Indro se sapesse che la terza via – in tema di democrazia interna – tra questi due estremi è la consultazione online sulla mitologica piattaforma Rousseau. Dopo tutto, forse è meglio non saperlo.
Sarebbe ora di mettere in atto l’art. 49 della Costituzione, in modo che la vita dei partiti sia, per quanto possibile, trasparente e democratica.
Penso che l’argomento proposto come rimedio della democrazia rappresentativa malata e diventato ormai luogo comune sia o un errore o una questione secondaria. Se fosse quello il problema e quella la soluzione, staremmo in un regresso all’infinito: non sapendo far rispettare i principi democratici fondamentali fra cittadini, partiti, elettori, candidati, liste, eletti, gruppi parlamentari, maggioranza e opposizione, garantiamo una maggiore democraticità all’interno dei partiti! E se poi lì ci troviamo con gli stessi problemi rimasti inevasi nella rappresentanza costituzionale? La prima e necessaria (non necessariamente unica) risposta al problema è la democraticità della legge elettorale che in Italia non è più assicurata almeno dal 2015.