di Fabio Ferrari
Al di là di ogni valutazione su merito e opportunità, se veramente la crisi di governo sarà portata in Parlamento, e lì pubblicamente discussa e formalizzata con un voto di fiducia, non si potrà che compiacersene.
Si tratterebbe di un evento più unico che raro nella opinabile tradizione parlamentare della nazione italiana, repubblicana e monarchica: le crisi di governo sono sistematicamente avvenute al buio, nate e risolte dentro le più o meno segrete stanze dei partiti politici, senza un dibattito parlamentare e un’assunzione esplicita di responsabilità da parte dei protagonisti; anzi, spesso con quei toni melodrammatici così cari ad una certa inclinazione culturale di noi italiani (come dimenticare il Presidente del Consiglio dimissionario Letta che volutamente non incrocia lo sguardo di Renzi alla ‘cerimonia della campanella’? Un surrogato non del tutto esaltante di un dibattito e di un voto parlamentari che, ovviamente, non ci furono). Solo Prodi, due volte su due, ebbe l’indiscusso merito di formalizzare la crisi, pretendendo – pare anche contro il parere del Capo dello Stato nella seconda occasione – di essere sconfitto in Parlamento. E così imponendo di mettere nero su bianco nomi e cognomi di chi ritenne di far cadere il governo.
Già, il punto è proprio questo, perché la parola chiave in democrazia è responsabilità: ciascun parlamentare può avere le proprie ragioni per continuare a sostenere l’Esecutivo o, al contrario, interrompere il rapporto fiduciario; ma di queste scelte, vitali per il futuro del Paese, deve assumersi pubblicamente la responsabilità, consentendo poi agli elettori di comprendere, valutare e infine giudicare. Potrà sembrare poco, o peggio un antiquato passaggio ‘formale’ (come incredibilmente alcuni commentatori hanno sottolineato dopo la conferenza stampa di ieri sera del Presidente del Consiglio Conte); ma il senso della democrazia, profondamente innervato nel circuito della rappresentanza e nei suoi sostanziali riti, è in gran parte tutto qui. E andrebbe per quanto possibile protetto e rispettato, non quotidianamente dileggiato.
Il tutto, come spesso capita, assume poi i tipici contorni ‘gravi ma non seri’ perfettamente descritti da Flaiano, perché questo è il Paese in cui ogni giorno, in modo morboso e retorico, si inneggia al mitologico ‘popolo sovrano’, confidando nei suoi supposti, metafisici poteri; e proprio quando, attraverso le procedure parlamentari costituzionalmente prescritte, il popolo e i suoi rappresentanti avrebbero concreta voce in capitolo per esprimersi, si preferisce passare oltre, risolvendo il tutto a colpi di tweet o radunate balneari.
Sarebbe in effetti davvero sorprendente che un Governo fin dal primo giorno ben poco attento – sia consentito, dal Presidente del Consiglio in giù senza esclusioni – a quelle deferenti forme che in democrazia sono sostanza, si mostrasse sotto questo profilo redivivo nel momento più delicato e istituzionalmente importante, quello della sua fine. Ma ironica nemesi a parte, si tratterebbe di un precedente importante, da scolpire nella cronaca costituzionale e possibilmente da tenere a mente per il futuro.
Se crisi sarà, la speranza è dunque che questa si convogli nelle forme previste, mettendo ciascuno davanti alle proprie – pubbliche – responsabilità. Dovesse accadere, chi si sarà adoperato per questa soluzione meriterà un sincero plauso, e forse anche un po’ di sana, istituzionale, riconoscenza, a cui si aggiungerà però un’ingenua domanda: perché, tutto questo giusto e condivisibile rigore, solo ora?
Sacrosante le parole sulla responsabilità individuale (che non esclude quella partitica) dei singoli parlamentari.
“Già, il punto è proprio questo, perché la parola chiave in democrazia è responsabilità: ciascun parlamentare può avere le proprie ragioni per continuare a sostenere l’Esecutivo o, al contrario, interrompere il rapporto fiduciario; ma di queste scelte, vitali per il futuro del Paese, deve assumersi pubblicamente la responsabilità, consentendo poi agli elettori di comprendere, valutare e infine giudicare.”
Ma c’è qualcuno che si rende conto che le condizioni di questa responsabilità sono state soppresse nel 2005 con le liste interamente bloccate, che erano già un vizio meno assoluto della legge elettorale previgente?
La colpa di questo stato di fatto e di diritto è anche o prima di tutto degli “esperti” di diritto costituzionale; è una questione di teoria, di coerenza del sistema, di dottrina e di ideologia, è troppo facile prendersela con i nuovi barbari che veicolano teorie incoerenti improvvisate , o più generalmente con gli attori politici poco scrupolosi perché troppo interessati. No, la colpa è il discorso pubblico, la normativa vigente, la giursiprudenza suprema e i progetti di riforma che circolano senza per fortuna sempre essere approvati, non degli ultimi diciotto mesi, ma degli ultimi diciotto anni, e in particolare di coloro, cattedratici, a cui in teoria spetterebbe il compito di vegliare sulla coerenza, sull’equilibrio e sulla sostenibilità della dottrina costituzionale.
Piscis primum a capite foetet, lo dicevano già …. i greci: Ἰχθὺς ἐκ τῆς κεφαλῆς ὄζειν ἄρχεται.