Come noto, lo scorso 21 maggio è scaduta la convenzione tra il Ministero dello sviluppo economico e Radio Radicale (rectius: il Centro di produzione Spa) in base alla quale i cittadini italiani hanno potuto ascoltare non solo le sedute parlamentari (come si limita a fare il canale Rai Gr Parlamento), ma anche… l’attività delle altre istituzioni, i più importanti processi nelle aule di giustizia, la vita delle carceri, gli eventi più significativi di tutti i partiti, i convegni, le manifestazioni, le conferenze stampa, i dibattiti politici, ecc. Con la sua quarantennale attività Radio radicale ha dimostrato che, se si vuole, si può fare un vero e proprio servizio pubblico. Il risultato è uno straordinario archivio digitale, liberamente accessibile, che costituisce un patrimonio prezioso per la memoria storica della nostra Repubblica.
Che Radio radicale vada salvata è quindi fuori discussione, per le ragioni ribadite e ben esposte nell’appello firmato da 190 costituzionalisti. Ragioni che sono significativamente condivise da tutte le forze politiche, ad eccezione del Movimento 5 Stelle, i cui vertici sono così ossessionati dai costi della democrazia da non riuscire più a distinguere tra l’essenziale ed il superfluo.
Il problema che si vuole in questa sede affrontare è piuttosto come salvare Radio radicale, e cioè come prorogare l’attuale convenzione, autorizzando la relativa spesa, fino alla fine di quest’anno così da consentire in questo lasso di tempo al Governo di bandire una nuova gara per lo svolgimento di tale servizio pubblico, come la stessa Radio radicale richiede da anni, inutilmente.
Poiché la tempistica è quanto mai decisiva, essendo come detto la convenzione già scaduta, la quasi totalità dei gruppi hanno deciso di profittare dell’esame in Commissione alla Camera del decreto-legge n. 34/2019, recante «Misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi», per includere tra queste ultime quella di Radio radicale, anche per le ricadute occupazionali che la sua chiusura avrebbe.
Da qui la presentazione di diversi emendamenti diretti a prorogare e rifinanziare la convenzione con il MISE, i quali, se votati, visto il largo consenso politico di cui godono, presumibilmente verrebbero approvati. Ma, prima ancora di essere votati, tali emendamenti devono essere dichiarati ammissibili. Ed è su tale scoglio, politico e procedurale, che il tentativo di salvataggio si è al momento incagliato.
Alla Camera, il giudizio sull’ammissibilità degli emendamenti ai disegni di legge di conversione dei decreti legge è molto più severo rispetto a quello dei disegni di legge ordinari giacché – prima in Commissione e poi in Aula – vanno dichiarati inammissibili gli emendamenti e gli articoli aggiuntivi “non strettamente attinenti alla materia” (art. 96-bis.7 R.C.) e non semplicemente quelli “relativi ad argomenti affatto estranei all’oggetto della discussione” (art. 89.1 R.C.).
Peraltro, come noto agli addetti ai lavori (e soprattutto ai deputati, che da tempo lamentano una minore potestà emendativa rispetto ai senatori), in tema di ammissibilità degli emendamenti ai decreti-legge, al Senato vige una prassi meno severo rispetto a quella della Camera dei deputati giacché sono dichiarati inammissibili solo gli emendamenti “estranei all’oggetto della discussione” (art. 97.1 R.S.). Una delle significative asimmetrie del nostro bicameralismo che alimenta il dubbio se la sorte degli emendamenti sarebbe stata diversa se il testo del disegno di legge di conversione fosse stato presentato al Senato anziché alla Camera.
Alla luce della suddetta normativa, le Presidenze delle Commissioni riunite Bilancio e Finanze hanno quindi dichiarato tali emendamenti inammissibili perché non strettamente attinenti con le principali finalità del provvedimento, in riferimento ai singoli oggetti e alle specifiche problematiche da esso affrontate.
A seguito dell’opposizione formulata da diversi deputati, le Presidenze delle due Commissioni riunite, in conformità a taluni precedenti (v. lo speech del Presidente della I Commissione Violante nella seduta del 20 febbraio 2008) hanno deciso di verificare se sull’ammissibilità di tali emendamenti vi fosse il consenso di tutti i gruppi parlamentari. In altri termini, se vi fosse stata l’unanimità si sarebbero potuti ampliare gli stretti margini di ammissibilità delle proposte emendative, acconsentendo per scelta politica ciò che dal regolamento era precluso: un classico caso di applicazione del principio del nemine contradicente. La decisa opposizione però del deputato Trano del M5S ha precluso tale possibilità.
Che fare, dunque, ora?
Si è ipotizzato di ripresentare in Aula il contenuto degli emendamenti dichiarati inammissibili, anche da parte di deputati non appartenenti alla V o VI commissione, al fine di consentire al Presidente “qualora lo ritenga opportuno [di] consultare l’Assemblea”, affinché essa decida sulla loro ammissibilità “senza discussione per alzata di mano” (art. 96-bis.7 R.C., secondo periodo). Mi sembra, però, una strada impraticabile. L’appello del Presidente all’Assemblea, previsto anche nel procedimento legislativo ordinario (art. 89.1, ultimo periodo, R.C.), pare caduto in desuetudine, come recentemente confermato (v. Assemblea, seduta del 7 maggio 2019 in cui si dà conto dell’ultimo precedente del 18 giugno 2003 in cui il Presidente della Camera Casini rimise all’Aula l’ammissibilità dell’emendamento del c.d. lodo Maccanico-Schifani che includeva la sua tra le cariche per le quali era prevista la sospensione automatica dei processi penali per reati comuni: una circostanza del tutto eccezionale, quindi). Il motivo di tale disapplicazione è evidente: evitare che, tramite l’appello all’Aula, la maggioranza possa estendere la materia del decreto legge a scapito dei requisiti costituzionali di omogeneità affidati invece al sindacato del Presidente d’Assemblea. Va però riconosciuto che, nella situazione specifica, tale ratio non pare invocabile giacché si tratterebbe di una decisione richiesta dall’opposizione
Piuttosto la strada che si potrebbe percorrere ci sembra altra. La Lettera circolare del Presidene della Camera sulla istruttoria legislativa nelle Commissioni del 10 gennaio 1997 prevede infatti che nel caso in cui un deputato si opponga alla dichiarazione di inammissibilità pronunciata dal presidente della Commissione “ed altresì in tutti i casi in cui l’ammissibilità di emendamenti ed articoli aggiuntivi appaia comunque dubbia”, il Presidente della Commissione non deve procedere alla loro votazione ma deve rimettere la questione al Presidente della Camera, il quale decide in via definitiva (ex art. 41.2 R.C.). Poiché tale interlocuzione, almeno formalmente, non v’è stata, come prevedere la stessa circolare i deputati che hanno visto dichiarati inammissibili i propri emendamenti hanno il diritto di ripresentarli in Assemblea “per verificarne in quella sede l’ammissibilità”, derogandosi così eccezionalmente alla regola per cui non è possibile ripresentare in Aula emendamenti vertenti su materia identica rispetto a quelli già dichiarati inammissibili in Commissione (art. 86.1 RC.).
In definitiva, l’unica ipotesi per insistere sull’ammissibilità, e di conseguenza alla sottoposizione al voto degli emendamenti diretti a salvare Radio radicale, è quella di fare appello al Presidente d’Assemblea perché riveda – in Aula – la decisione d’inammissibilità assunta dai Presidenti delle Commissioni Bilancio e Finanze. Evidenzio in Aula, e non in Commissione, affinché la decisione del Presidente della Camera non sia frutto di una sua privata interlocuzione con i Presidenti di Commissione ma di un dibattito pubblico e aperto, che solo l’Aula per sua natura può garantire e che Radio Radicale in questi 40 quarant’anni ci ha permesso di conoscere e comprendere.
Devo al lettore un aggiornamento.
Come previsto nell’articolo, il 30 maggio i deputati Marattin, Brunetta e Lollobrigida hanno chiesto al Presidente della Camera di rivedere il giudizio di inammissibilità reso dalla Presidenza delle Commissioni riunite Bilancio e Finanze nella seduta del 21 maggio scorso sugli articoli aggiuntivi al disegno di legge n. 1807 di conversione del d.l. 34/2019, diretti a prorogare la Convenzione tra il Mise e Radio Radicale (Centro di produzione spa).
Il Presidente della Camera, con lettera del giorno successivo, ha riammesso gli emendamenti che prevedevano interventi di sostegno alle imprese editrici di quotidiani e periodici e alle imprese radiofoniche private che abbiano svolto attività informativa d’interesse generale, perché riferiti ad articoli aggiuntivi che, a loro volta, erano stati ammessi in Commissione perché ritenuti riconducibile ad una delle finalità del decreto-legge, cioè quella dì stabilire misure per la crescita economica.
Non ha invece riammesso gli articoli aggiuntivi relativi alla convenzione con Radio radicale e alla previsione di una gara per la prosecuzione del servizio perché non riconducibili nè al contenuto né alla finalità del decreto legge.
In particolare, il Presidente ha osservato che tali articoli aggiuntivi non possono essere considerati ammissibili sol perché, al pari di altri articoli del decreto legge, incidono su disposizioni contenute nella legge di bilancio “stante la natura e la fisiologica ampiezza dei contenuti di quest’ultima”; oppure perché, sempre al pari di altri articoli del decreto legge, rechino proroghe di termini, non costituendo ciò l’oggetto o la finalità del provvedimento in esame.
Se questi due argomenti paiono condivisibili, meno il terzo, che tende a separare gli interventi di sostegno, come detto, alle imprese radiofoniche private, ritenuti ammissibili perché inquadrabili tra le misure per la crescita economica oggetto del decreto legge, da quelli diretti a salvare Radio radicale, come se la sua scomparsa non avesse nulla a che fare non solo con la crescita economica ma anche con la “risoluzione di specifiche situazioni di crisi”, rientrante tra le finalità del medesimo provvedimento d’urgenza.
Ancora una volta, quindi, il giudizio di ammissibilità del Presidente d’Assemblea si rivela uno snodo decisivo del procedimento legislativo, tanto più quando riferito ai disegni di legge di conversione dei decreti – legge, laddove la tutela della omogeneità del provvedimento offre l’occasione per svolgere valutazioni asseritamente tecniche, “ancorate sulle [rectius: alle] norme regolamentari e sulle [alle] relative prassi applicative”, ma che, talora inevitabilmente, sono espressione di un certo tasso di discrezionalità.
Grazie per l’attenzione
Radio Radicale é una impresa privata che ha ricevuto un appalto di pubblica utiłità. Non vedo motivo perché debba essere reiterato l’affidamento diretto e non si possa svolgere una gara europea NORMALISSIMA!
Inoltre non é tollerabile che un appalto di un servizio pubblico sia sfruttato per propaganda politica di una fazione minoritaria.
Altrimenti perché non si può affidare l’appalto del servizio direttamente
a RADIO PADANIA o RADIO POPOLARE?
Mi farebbero meno schifo dei radicali!!
Speriamo bene che Radio Radicale continui a svolgere il suo ruolo di servizio pubblico