La Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi respinge l’istanza di un senatore perché tale carica non gli conferirebbe tale diritto ma solo quello di presentare interrogazioni e interpellanze; alle quali però il Governo non risponde…
Heri dicebamus, a proposito della multa comminata ai parlamentari saliti a bordo della motonave SeaWatch3, di come si cerchi di circoscrivere l’attività ispettiva del parlamentare, che dell’esercizio del suo mandato rappresentativo costituisce dimensione essenziale.
Una conferma di tale ipotesi si può trarre da un altro episodio, parimenti preoccupante. Faccio riferimento alla decisione con cui la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi presso la Presidenza del Consiglio (art. 27 l. 241/1990) ha dichiarato inammissibile lo scorso 15 aprile la richiesta di accesso agli atti formulata dal sen. Ferrazzi (Pd). Questi, il 26 febbraio aveva inoltrato al Ministero del Tesoro (Direzione IV, Sistema Bancario e Finanziario) un’istanza volta a conoscere il contenuto della corrispondenza intercorsa tra gli Uffici del Ministero del Tesoro e gli Uffici del Commissario europeo per la concorrenza Margrethe Vestager circa l’istituzione del Fondo Indennizzo Risparmiatori (FIR) previsto dall’art. 1.493 della legge di bilancio (l. 145/2018)
Non avendo avuto risposta nei trenta giorni previsti (art. 25.4 l. 241/1990), il senatore faceva ricorso alla predetta Commissione la quale, come detto, dichiarava inammissibile la richiesta di accesso giacché “la condizione soggettiva di Senatore (o Deputato)”, quale rappresentante della Nazione ex art. 67 Cost. non conferisce di per sé “il diritto di accesso ai documenti a prescindere dalla individuazione dello specifico interesse” concreto ed attuale, richiamando in tal senso giurisprudenza (Tar Roma, I 3143/1998 del 9 novembre) e propri precedenti pareri (12.5.2009, 27.3.2012, 3.7.2012, 17.1.2013) e decisioni (17.9.2015 e 8.10.2015).
Due gli argomenti invocati.
In primo luogo, la mancanza di disposizioni legislative che consentano ai parlamentari di esercitare tale diritto di accesso ai documenti amministrativi, invece presenti per altri tipi di incarichi elettivi. Difatti ai consiglieri comunali e provinciali è espressamente conferito il diritto “di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato”, pur essendo “tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge” (art. 43.2 d.lgs. 267/2000). L’essere tale disposizione specificamente rivolta ai consiglieri comunali e provinciali non ne ha però impedito in altre occasioni l’applicazione a favore anche dei parlamentari nazionali e dei consiglieri regionali in forza del principio secondo cui l’acquisizione di documenti amministrativi da parte di soggetti pubblici si informa al principio di leale cooperazione istituzionale” (art. 22.5 l. 241/1990; v. ad esempio il parere reso dalla predetta Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi nella seduta del 24 luglio 2014). Dall’attuale diniego, quindi, scaturisce la paradossale situazione per cui al parlamentare nazionale sarebbe impedito l’acquisizione di quelle informazioni e documenti utili per l’esercizio del suo mandato, invece consentite ai consiglieri comunali e provinciali per il loro. Pare evidente che una simile asimmetria penalizzi ciò che invece meriterebbe di essere particolarmente protetto, e cioè la conoscenza di quelle notizie aventi carattere non locale ma nazionale utili allo svolgimento del ruolo di parlamentare di rappresentante, per l’appunto della Nazione.
In secondo luogo, a detta della Commissione i parlamentari per acquisire documenti e assumere dichiarazioni potrebbero ricorrere agli strumenti di sindacato ispettivo sull’attività del Governo e della Pubblica amministrazione previsti dai regolamenti camerali. Anche in questo caso si tratta di una motivazione non convincente, giacché è a tutti noto – e tanto più ad una struttura facente parte della Presidenza del Consiglio – che solo una parte delle interrogazioni e delle interpellanze presentate trovano risposta; e quando ciò accade essa non è sempre tempestiva.
Lo ha confermato una recente indagine di Openpolis secondo cui proprio nelle ultime legislature la percentuale già bassa di risposta alle interrogazioni a risposta scritta è ulteriormente diminuita: il 15,46% con il Governo Letta, il 18% con il Governo Renzi per poi scendere al 16,46% con il Governo Gentiloni fino ad arrivare all’appena 7,97% del Governo Conte. Tale dato conferma una tendenza, da tempo notata, circa l’incapacità dell’Esecutivo di evadere prontamente tutte le richieste di sindacato ispettivo (nelle ultime due legislature circa la metà delle interrogazioni a risposta orale non ha avuto risposta (Gianniti-Lupo, p. 299), anche quando riconducibili non al singolo parlamentare su problemi locali ma ai gruppi politici su tematiche d’interesse nazionale.
Insomma, secondo la Commissione il parlamentare non ha diritto di accesso agli atti amministrativi perché ha diritto di sindacato ispettivo, ma tale sindacato di fatto è inefficace a causa della reticenza del Governo ad esservi sottoposto.
Quanto di tutto ciò corrisponda alle prerogative di controllo democratico spettanti al singolo parlamentare sia pure il lettore a giudicare.
Sarebbe stato diverso il caso di richiesta di accesso agli atti ex art. 5 “Accesso civico a dati e documenti” (D.LGS 33/2013 come modificato dal D. LGS 97/2016) cosiddetto FOIA?
In questo caso infatti chiunque ha diritto di richiedere documenti, informazioni o dati, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico. Inoltre, l’esercizio di tale diritto non è sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente. Grazie
La questione è grave, non perché il governo debba scoprire necessariamente tutte le sue carte, ma se non lo fa alimenta il sospetto. Il recente precedente del governo britannico che non permette ai deputati di conoscere il contenuto degli studi ordinati dagli uffici governativi sulle conseguenze della Brexit sull’economia del paese e delle famiglie, assomiglia al caso discusso qua. Si tratta del contenuto della corrispondenza fra governo e commissione relativa all’istituzione di un fondo per l’indennizzo dei sottoscrittori di emissioni subordinate di banche poi fallite, trattati scorrettamente, in qualche modo e da qualcuno truffati. Il fondo per l’indennizzo dei risparmiatori è previsto da una legge votata dal parlamento, ma presenta delle criticità di conformità con la legge (anche europea) vigente e viene scrutato per questa ragione dalla Commissione. La verifica dovrebbe essere resa pubblica nei confronti dei singoli legislatori. Se il governo preferisce tenere tali documenti confidenziali, significa che c’è qualcosa da nascondere. Che cosa? Tutta la vicenda è iniziata nel 2008 quando il governo italiano contrariamente agli altri stati non ha ritenuto opportuno ricapitalizzare con fondi pubblici il sistema bancario. Il problema delle banche si è aggravato pochi anni dopo quando numerose piccole banche – in difficoltà – hanno emesso obbligazioni subordinate collocate attraverso i loro sportelli presso i loro clienti al dettaglio, da un lato con il benestare di Banca d’Italia, organo di controllo avvisato in anticipo delle operazioni in capitale delle vigilate, che presiede alla stabilità del sistema finanziario, alla solidità degli operatori e alla tutela del pubblico risparmio e dall’altro lato con la facilitazione sorprendente ed estremamente sospetta di Consob che dovendo vigilare sulle operazioni di collocamento pubblico ha modificato gli obblighi di prospetto permettendo alle banche emettenti di non menzionare nella documentazione messa a disposizione degli investitori gli scenari di maggior rischio. Si deve quindi sospettare che gli uffici della commissaria alla concorrenza abbiano replicato con argomenti che nel paese dell’omertà è meglio non far sapere pubblicamente. Anche su questo forum ci sono state prese di posizione, a mio parere tristemente sbagliate, che hanno dato le colpe dell’impossibilità di trattare correttamente gli investitori ingannati, di indennizzare equamente i risparmiatori defraudati, tenendo responsabili coloro che hanno causato il danno, alle autorità europee, alla commissaria Vestager personalmente e ad una regolamentazione europea imposta frettolosamente ai paesi (e ai loro governi e legislatori) ignari (sic), invece di cercare le responsabilità presso coloro – governi ed autorità di vigilanza – che non hanno informato, che non hanno vigilato, che non hanno vietato, che non hanno agito in tempo, ma hanno fatto per anni di tutto per occultare la realtà dei fatti (prima la situazione di difficoltà di numerose banche in un paese dove i ristoranti erano pieni, poi le operazioni straordinarie inappropriate di numerosi istituti in difficoltà) e le responsabilità dei protagonisti (che non sono solo e nemmeno soprattutto le direzioni degli istituti ormai falliti). Ricordo che i promotori governativi del referendum sulla revisione costituzionale si sono avvalsi di argomenti attinenti alla gestione della crisi bancaria per decidere sulla costituzione. Il vero problema è il merito della questione, legato a doppio filo alla questione dei documenti di programmazione fiscale fasulli, truccati, contestati dalle autorità nazionali di controllo (upB), a prescindere dalla definizione degli obblighi di trasparenza dell’azione del governo nei confronti dei parlamentari. Tutta l’Europa ha paura dell’Italia che ora non minaccia più di uscire dall’euro e dall’UE, ma di rimanerci, ricattando gli altri. Dopo le elezioni ci sarà un brutto risveglio, in un senso o in un altro. Speriamo che la nuova Commissione sia più coraggiosa di quella attuale e che, per tutelare il bene comune, anche dei contribuenti e risparmiatori italiani, cominci a insistere senza complimenti su un’informazione veritiera e a far rispettare le regole senza sconti. Per l’Italia, se non cambia, questo significherebbe applicazione dell’articolo 7 del Trattato.
Gentile sig.ra Clara,
rispondo alla questione da lei sollevata citando la sentenza con cui il Consiglio di Stato (sez. VI, 31 gennaio 2018, n. 651) ha chiarito che, pur rientrando la valorizzazione del principio della massima ostensione nell’ambito del nuovo modo di concepire il rapporto tra cittadini e potere pubblico, improntato a trasparenza e accessibilità dei dati e delle informazioni, ciò non vuol dire che esso possa estendersi fino al punto da legittimare un controllo generalizzato, generico e indistinto del singolo sull’operato dell’amministrazione.
Anche dopo l’entrata in vigore delle norme che «disciplinano l’accesso civico ‘generalizzato’, permane un settore ‘a limitata accessibilità’, nel quale continuano ad applicarsi le più rigorose norme della legge 241/1990 e se è vero che ormai è legislativamente consentito a chiunque di conoscere ogni tipo di documento o di dato detenuto da una pubblica amministrazione (oltre a quelli acquisibili dal sito web dell’ente, in quanto obbligatoriamente pubblicabili), nello stesso tempo, qualora la tipologia di dato o di documento non può essere resa nota per il pericolo che ne provocherebbe la conoscenza indiscriminata, mettendo a repentaglio interessi pubblici ovvero privati, l’ostensione di quel dato e documento sarà resa possibile solo in favore di una ristretta cerchia di interessati in quanto titolati, secondo le tradizionali e più restrittive regole recate dalla legge 241/1990…; pur introducendo nel 2016 (d.lg. 97/2016) il nuovo istituto dell’accesso civico ‘generalizzato’, espressamente volto a consentire l’accesso di chiunque a documenti e dati e quindi permettendo per la prima volta l’accesso (ai fini di un controllo) diffuso alla documentazione in possesso delle amministrazioni (e degli altri soggetti indicati nella norma appena citata) e privo di un manifesto interesse da parte dell’accedente, ha però voluto tutelare interessi pubblici ed interessi privati che potessero esser messi in pericolo dall’accesso indiscriminato. Il legislatore ha quindi operato per un verso mitigando la possibilità di conoscenza integrale ed indistinta dei documenti detenuti dall’ente introducendo dei limiti all’ampio accesso (art. 5 bis, commi 1 e 2, d.lg. 33/2013) e, per altro verso, mantenendo in vita l’istituto dell’accesso ai documenti amministrativi e la propria disciplina speciale dettata dalla legge 241/1990 (evitando accuratamente di novellare la benché minima previsione contenuta nelle disposizioni da essa recate), anche con riferimento ai rigorosi presupposti dell’ostensione, sia sotto il versante della dimostrazione della legittimazione e dell’interesse in capo al richiedente sia sotto il versante dell’inammissibilità delle richieste volte ad ottenere un accesso diffuso».
Grazie per l’attenzione