La discussione in Parlamento sulla riforma dell’articolo 71 della Costituzione ci interroga su come, anche la democrazia, possa diventare il punto di convergenza di una crisi che ha molte fonti ma un unico sbocco finale; la semplificazione apparente di decisioni complesse in un unico atto. Una decisione che è attribuita a una supposta intelligenza collettiva che, valutata la proposta dei promotori decide uno actu, immediatamente.
Questa prospettiva di decisioni immediate, automatiche, veloci, non contrattabili, a-territoriali è accompagnata, paradossalmente, dallo sviluppo tecnologico dell’intelligenza artificiale, uno sviluppo talmente rapido e invadente da richiedere la redazione da parte della Commissione Europea il 18 dicembre 2018 di un Progetto di orientamenti etici per una IA affidabile. Il documento massimizza le opportunità dell’intelligenza artificiale ma postula un approccio antropocentrico di detta intelligenza. Si chiede alla macchina di rispettare l’uomo e di garantire la finalità etica dell’ IA mediante il rispetto di parametri il fare del bene, evitare di fare del male, garantire l’autonomia agli umani, ma, soprattutto, attenzione alle situazioni in cui possono esservi asimmetrie di potere o informazione. Gli umani, dunque, si occupano dei limiti da definire per le macchine e, le macchine, devono essere rese responsabili e tracciabili, devono agire per il benessere dei cittadini. Esse potranno decidere prima e meglio dell’Uomo solamente se lo riconosceranno al centro della decisione.
Mentre ci accingiamo a regolare le macchine la proposta di decisione immediata in discussione contrappone il Popolo al Parlamento, non ha nulla a che fare con la democrazia diretta, perché la decisione immediata ha un decisore che definisce tra pochi la decisione da prendere; non aiuta la democrazia rappresentativa perché, come ha detto Roberto Bin nel suo intervento, attivando il sistema binario Si/No si perde tutte le altre possibilità di decisione.
La democrazia, infatti, soprattutto nella sua declinazione rappresentativa, è uno strumento di decisione fondata sulla comparazione, sulla distinzione, sulla contrapposizione e non su un’unica prospettiva indicata da una minoranza. La democrazia è tecnica di decisione, proprio a principiare dal dialogo tra persone e culture, volta a superare l’asimmetria di informazione che non permette decisioni informate a chi decide in assenza di informazioni.
Per evitare l’uso smodato e inconsapevole dell’intelligenza delle macchine – che può portare, a costruire procedure automatiche inconsapevoli, fatte per apparire democratiche – la limitazione da parte degli umani è orientata alle decisioni non complesse. Se si concedesse alle macchine di prendere decisioni apparentemente dirette, decisioni non confrontabili con decisioni precedenti, decisioni senza passato, decisioni destinate a rimanere nell’istante, non avremo uno sviluppo della democrazia ma una democrazia artificiale.
Questa è la pericolosa illusione di una democrazia diretta che possa limitarsi a discutere online, e imporre la Parlamento la sua volontà regolatoria. Nessuna comparazione sarà possibile tra i resoconti parlamentari per chiarire l’intento del legislatore rappresentativo, nessun volontà potrà emergere tra discussioni solamente virtuali. Chi definisce l’intenzione normativa di chi approva all’istante le regole? Chi certifica la loro genuinità?
Si dice che il referendum propositivo che è in discussione in Parlamento porterà maggiore partecipazione democratica. Vero è il contrario perché in democrazia nessuna decisione può essere presa senza che, chi è diverso o minoranza possa esprimersi, opporsi, dialogare apertamente, proporre opinioni differenti.
Così come nessuna geometria dei dati inseriti in una macchina artificiale potrà restituire, tantomeno oggettivamente, il punto di vista di portatori d’interessi contrapposti che siedono in un organo rappresentativo e discutono in pubblico di un tema rilevante per la comunità.
Il progetto scritto dai promotori del referendum propositivo potrà certamente porre all’attenzione del dibattito pubblico un tema che fatica a entrare nell’agenda politica parlamentare ma nessuna regola prevista dal progetto di revisione costituzionale ci rassicura su: chi è responsabile delle macchine referendarie che preparano la decisione? Sulla circostanza di chi scrive gli algoritmi referendari? Chi li predispone? Che idea ha degli interessi messi in discussione il software scritto per governarli?
In sintesi, la proposta d’introduzione del referendum propositivo ha, allo stato, solamente il rischio di costruire una democrazia artificiale.
Penso che il referendum d’iniziativa popolare sia un’altra cosa non solo rispetto alla proposta di legge costituzionale in itinere ma anche rispetto all’intendimento del prof. Demuro. Non è la negazione, non è la rovina della democrazia rappresentativa, se impostato correttamente, bensì il suo indispensabile complemento. Nella teoria classica (Locke, Rousseau, Condorcet e il suo progetto del 1793, le prime costituzioni americane che l’avevano preceduto) il RIP è uno strumento del principale per controllare l’operato del suo rappresentante. Non basta eleggere i rappresentanti (preferibilmente con procedure democratiche non manipolate) e poi subire incondizionatamente le sue decisioni o la sua inerzia fino alle successive elezioni. Non basta il controllo della conformità costituzionale da giudici nominati direttamente o indirettamente dai rappresentanti. Non basta il controllo del capo dello stato scelto dai rappresentanti eletti, sulla capacità di decisione dei legislatori. Serve un’ultima garanzia di intervento del principale – che (indipendentemente da tutti i paradossi e sofismi pseudo-giuridici ricondotti di solito a Hobbes) coincide con l’elettorato – contro casi di abuso del potere legislativo non sanzionati dagli altri organi di controllo. Inteso così il RIP può e deve prevedere condizioni esigenti, ma non ostacoli insanabili. Contrapporre a questa ultima istanza l’expertise, la saggezza, la conoscenza di non si sa quale autorità costituita è dispotismo, magari illuminato, ma sempre dispotismo. Rivendicare un RIP di ultima istanza a condizioni esigenti non significa negare la necessità di un dibattito, di trasparenza e di apertura, di ascolto di pareri esperti o interessati, non significa negare che il dibattito pubblico è più difficile è più a rischio di errori che la discussione in un piccolo collegio. L’esigenza di una certa conformità epistemica è indispensabile in entrambi i casi, ma non è particolarmente garantita nella rappresentanza in carica. È proprio questa inadempienza che dimostra l’utilità di una garanzia democratica superiore. La credibilità e la legittimità del parlamento sono state messe a dura prova da 25 anni di discorso pubblico sostanzialmente populista, da tentativi di revisione altrettanto forzate e leggi elettorali gravemente abusive. Oggi le forme vigenti della democrazia italiana, i rischi e gli abusi dell’informazione truccata (media, web, interessi economici), le pessime credenziali dei nuovi (e meno nuovi) barbari al potere (o in attesa di riprenderselo) assomigliano più al dispotismo (ahimè poco illuminato) che non alla democrazia ideata dai costituenti nel biennio 1946/7. Bisogna rileggere i classici, Locke e non solo Hobbes, Condorcet e non solo Constant, Hugo Preuss piuttosto che Carl Schmitt.