Le costituzioni, di norma, non nascono d’un tratto dal fascino di astratti principi, né cadono dal cielo sospinte da un irenico afflato. Sono al contrario frutto di un conflitto, spesso sanguinoso, a cui si pone fine proprio riscrivendo daccapo le regole giuridiche della convivenza civile.
Sono perciò ‘marchiate’ storicamente, innervate nella carne viva dei tormenti – non di rado bellici – concretamente vissuti da un popolo. Ciò significa che esprimono valori precisi: in ciò che abbracciano, ma prima di tutto in ciò che rinnegano, rifiutano, ripudiano, togliendo legittimità a quel nemico che è stato combattuto e vinto, con inenarrabili costi umani e sociali.
Questo ha delle ricadute sul senso del sistema costituzionale, sull’interpretazione delle norme: si tratta infatti di parole ‘scolpite’ nel testo, ma pur sempre di semplici parole, suscettibili di ennesime interpretazioni, anche molto difformi o addirittura tra loro confliggenti. Ed è proprio il nemico contro cui si è combattuto ad aiutare l’interprete, a guidarlo nella comprensione del significato profondo da attribuire alla legge fondamentale, perlomeno nei suoi contorni irrinunciabili.
Queste premesse valgono anche per la nostra Costituzione, che nasce avendo ben chiari i due nemici contro cui costruire le proprie architravi democratiche: il fascismo e la monarchia dei Savoia (dinastia che pure, è giusto ricordarlo al netto delle inequivocabili responsabilità, qualche merito nella formazione della nazione italiana lo ebbe). Le ragioni di ciò risultano ovviamente lapalissiane guardando alla nostra storia, ad un passato che non è poi così lontano, ma che sembra ogni giorno sempre meno pregnante, almeno ad ascoltare alcuni fatti di cronaca o le dichiarazioni di certi rappresentanti delle istituzioni.
Che la democrazia abbia talvolta a che fare con rigurgiti ‘eversivi’ è probabilmente inevitabile: anzi, è forse segno di maturità del sistema, in grado di contenere pacificamente l’esistenza di gruppi che possono esprimere la loro ‘opinione’ senza essere (nella migliore delle ipotesi) deportati oltre confine; senza subire, cioè, ciò che capiterebbe se vigesse uno di quei ripugnanti regimi a cui ‘democraticamente’ inneggiano. Ma deve trattarsi di episodi isolati e contenuti, senza che vi sia o vi possa essere alcuna passiva connivenza, o peggio ancora attiva convivenza, da parte dei rappresentanti delle istituzioni, di ogni livello: la condanna deve essere unanime, radicale, intransigente.
‘Scherzare’ sulla pregiudiziale antifascista – per esempio, derubricando il 25 Aprile a derby tra opposte fazioni politiche – è inaccettabile, e diventa ancor più intollerabile se a farlo è un esponente di spicco delle istituzioni. Significa colpire uno dei perni su cui si regge il sistema: o, per meglio dire, uno dei pilastri senza il quale il sistema rischia di cadere non solo dal punto di vista giuridico, ma prima di tutto identitario. Ogni comunità ha infatti bisogno di simboli – symballein: mettere insieme – che diano un senso, tengano unito chi ne fa parte, in nome di valori condivisi: questi non appartengono a nessuna forza politica, nessuno può appropriarsene, perché di tutti; ma proprio per questa ragione, nessun rappresentante delle istituzioni può metterli così apertamente in discussione. E il giuramento richiesto a chi esercita certe cariche pubbliche è lì per ricordarcelo.
Si mostra davvero poco senso di responsabilità nell’attribuire alla Resistenza un preciso colore politico, rendendola parte della contesa politica, e rinnegando così inevitabilmente la sua portata identitaria. Un conto è la doverosa indagine storica sulle pagine anche buie della genesi repubblicana; altro – tutt’altro – è il dileggio istituzionale dei simboli di unità nazionale. E il dramma è che non sembra affatto chiara la portata della posta in gioco.
Ben venga, dunque, la proposta di legge di reintrodurre – finalmente – l’educazione civica nelle scuole di tutti i livelli: ma deve essere chiaro che è la Costituzione del nostro Paese che va insegnata, con la sua storia, la sua origine e i fatti nudi e crudi che le diedero vita; e in questa vicenda, l’antifascismo non può che avere un ruolo centrale: appunto, pregiudiziale.
Ciò, a maggior ragione in un Paese che ha consentito ai discendenti maschi di casa Savoia di rientrare in Italia – previa modifica della norma transitoria della Costituzione che comprensibilmente lo vietava –, senza nemmeno imporre un giuramento formale alla Repubblica.
Ci si accontentò, allora, di un impegno privato contenuto in una letterina consegnata ad un avvocato; da lì a qualche anno, a rientro avvenuto, i Savoia scrissero un’ulteriore missiva, questa volta al Presidente della Repubblica, chiedendo un risarcimento del danno di 260 milioni di euro per i cinquantaquattro anni di esilio.
I problemi di identità della nazione italiana, come si vede, non nascono certo oggi.