Non è facile scrivere una buona riforma costituzionale. Si rischia di vederla inattuata o, peggio, di ottenere effetti opposti a quelli desiderati. Insomma, l’eventualità dell’eterogenesi dei fini è dietro l’angolo.
Così, ad esempio, le riforme del 1999 e del 2001, con cui s’intendeva ampliare le competenze delle autonomie regionali e locali, promuovendo la trasformazione in senso quasi federale dell’ordinamento repubblicano, non hanno trovato una coerente attuazione legislativa e non hanno certo avuto gli effetti che si sperava di produrre. All’attuazione ha dovuto pensare la Corte costituzionale, svolgendo un ruolo “non richiesto e non gradito” – come ebbe a dire nel 2004 il Presidente Zagrebelsky – di supplenza nei confronti di un legislatore latitante. Nell’enorme contenzioso che ha avuto inizio successivamente all’entrata in vigore della riforma, la Corte ha finito perfino con il riscrivere, in diverse parti, il difettoso testo novellato del Titolo V della Costituzione, adottando soluzioni centraliste, piuttosto lontane da quelle che apparivano essere le intenzioni del legislatore costituzionale. La crisi economico-finanziaria esplosa nella seconda metà dello scorso decennio ha fatto il resto, ponendo le condizioni perché il neocentralismo trovasse un’affermazione ancor più decisa negli orientamenti giurisprudenziali degli anni successivi.
L’ultimo tentativo di riforma organica del testo costituzionale è stato quello promosso dal Governo Renzi e naufragato con il referendum del 4 dicembre 2016. Una riforma costituzionale preceduta, secondo una discutibile pratica già in passato sperimentata, da riforme legislative che ne hanno anticipato i contenuti “a Costituzione invariata”, come la riforma Delrio riguardante gli enti locali e la legge elettorale n. 52 del 2015 (Italicum), poi dichiarata parzialmente illegittima dalla Corte costituzionale.
Dopo il fallimento di quest’ultimo tentativo, ci si è orientati adesso verso un altro metodo: quello degli interventi puntuali. Il mito della “grande” riforma in grado di realizzare una palingenesi della politica e della società, che in Italia ha una tradizione ormai risalente (lo evocava già quarant’anni fa Bettino Craxi), sembra avere fatto – almeno per il momento – il suo tempo.
Le revisioni costituzionali promosse dall’odierna maggioranza di governo e attualmente al vaglio delle Camere hanno carattere puntuale, forse troppo. Sì, perché se una riforma “grande” presenta diversi inconvenienti (è difficile prevederne gli esiti, calcolarne l’impatto; inoltre, nel caso in cui essa sia sottoposta al referendum costituzionale, la consultazione tenderà inevitabilmente ad acquisire una connotazione plebiscitaria, non essendo possibile scomporre i quesiti in relazione ai diversi contenuti della stessa e, pertanto, il corpo elettorale sarà costretto ad esprimere un unico giudizio sull’intero complesso di modifiche proposte), una riforma “piccola” non è di per sé necessariamente buona. Si pone sempre il problema di quale impatto avrà la revisione sugli altri ambiti dell’ordinamento sui quali essa indirettamente inciderà. Insomma, trovare il giusto equilibrio non è facile.
Così, per quanto riguarda l’attuale proposta di revisione dell’art. 71 della Costituzione, che intende introdurre il referendum propositivo, manca chiaramente un coordinamento con gli altri istituti di democrazia partecipativa già previsti dall’ordinamento e, in particolare, con il referendum abrogativo. Che senso ha mantenere uno strumento di legislazione popolare negativa se si ha a disposizione un mezzo molto più potente di normazione, che non incontra i limiti del referendum abrogativo e che può essere attivato con il medesimo numero di firme?
Il testo attualmente al vaglio delle Camere prevede una procedura aggravata nel caso in cui, nell’esercizio dell’iniziativa legislativa popolare, sia presentata una proposta di legge da almeno cinquecentomila elettori: se questa non è approvata entro diciotto mesi dalla sua presentazione, è indetto un referendum per deliberarne l’approvazione. Se le Camere approvano il testo con modifiche “non meramente formali”, il referendum è indetto sulla proposta presentata ove i promotori non vi rinunzino. La proposta approvata dalle Camere è quindi sottoposta a promulgazione se quella soggetta a referendum non viene approvata.
Poco importa, dunque, che la medesima proposta di revisione costituzionale riduca il quorum costituivo del referendum abrogativo dalla maggioranza (come prevede l’attuale art. 75, quarto comma, della Costituzione) a un quarto degli aventi diritto al voto. È altamente probabile che tale istituto finirà con il risultare un arnese obsoleto, nel momento in cui fosse introdotta la nuova procedura d’iniziativa legislativa popolare.
Al di là di tale inconveniente, più in generale, la domanda che sembra necessario porsi in premessa è se i vantaggi che può arrecare tale innovazione superino e, dunque, giustifichino i possibili svantaggi. Occorre, insomma, qualcosa di simile a un’analisi costi-benefici.
Tra i costi devono sicuramente considerarsi quelli gravanti sul sistema delle garanzie e, in particolare, sulla Corte costituzionale.
La proposta di revisione introduce, infatti, anche un giudizio di ammissibilità del referendum propositivo da parte della Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi per l’inammissibilità se la proposta popolare non rispetti la Costituzione, se sia ad iniziativa riservata, se presupponga intese o accordi, se richieda una procedura o una maggioranza speciale per la sua approvazione, se non provveda ai mezzi per far fronte ai nuovi o maggiori oneri che essa importi e se non abbia contenuto omogeneo. La proposta sottoposta a referendum viene approvata se ottiene la maggioranza dei voti validamente espressi, purché superiore ad un quarto degli aventi diritto.
L’attribuzione alla Corte di un compito del genere è una decisione non priva di conseguenze.
Basti pensare all’analogo controllo che l’organo svolge sul referendum abrogativo, un compito che non le fu attribuito dai Costituenti, ma solo successivamente, nel 1953, con una legge costituzionale. Un “dono avvelenato”, come lo ebbe a definire Leopoldo Elia, poiché quello che la Corte veniva chiamata a svolgere in quella sede era un controllo massimamente astratto, vertente su meri quesiti referendari, destinato a risolversi in un sindacato altamente discrezionale. Ed è nota la straordinaria creatività della giurisprudenza sull’ammissibilità del referendum abrogativo, che ha individuato tutta una serie di limiti impliciti, ulteriori rispetto a quelli previsti dall’art. 75 della Costituzione.
Un simile tipo di sindacato tende, pertanto, a sovraesporre politicamente la Corte costituzionale, mettendo a rischio l’equilibrio che deve necessariamente caratterizzare l’esercizio delle sue funzioni.
Nel caso del giudizio sul referendum propositivo i rischi sarebbero anche maggiori, poiché il controllo della Corte si porrebbe come una fase necessaria del procedimento di formazione della legge. Chi potrebbe partecipare, innanzitutto, al giudizio? Se in sede di attuazione della riforma si decidesse di seguire l’esempio del giudizio di ammissibilità del referendum (com’è altamente probabile che accada), dovrebbero essere ammessi al contraddittorio dinanzi alla Corte il Presidente del Consiglio dei ministri e i promotori dell’iniziativa legislativa popolare. Pertanto, il Governo finirebbe con l’essere proiettato in un dibattito contiguo a quello parlamentare, con un’evidente inopportuna confusione dei ruoli istituzionali.
Il problema si porrebbe anche riguardo alla possibile partecipazione di altri soggetti, poiché l’eventuale ammissione di parlamentari come intervenienti nel giudizio di ammissibilità della Corte finirebbe con il rendere quest’ultimo un prolungamento dello stesso dibattito parlamentare sul progetto di legge, mentre la partecipazione di soggetti terzi (associazioni di categoria e altri interessati) finirebbe con il conferire al controllo dell’organo di giustizia costituzionale le vesti di un’ulteriore anomala “istruttoria parlamentare”.
I promotori della riforma dichiarano di voler conciliare le virtù della democrazia rappresentativa con quelle della democrazia diretta, ma la proposta in esame appare ispirata da una logica fortemente punitiva nei confronti del Parlamento. Una logica che trova espressione anche nella progettata riduzione dei componenti delle Camere e nelle altre proposte di riforma, prospettate nel “contratto di governo”, dirette a ridimensionare il principio di libertà del mandato parlamentare.
Si delinea, nel complesso, un progetto che, se integralmente attuato, rischia di connotare il sistema istituzionale di una rigidità tale da comprometterne la funzionalità.
Istituti come il referendum propositivo, inoltre, si prestano a torsioni plebiscitarie. Il loro potenziamento, se non accompagnato dall’introduzione di misure volte ad assicurare l’esercizio di un voto libero e consapevole, rischia di esautorare l’istituzione parlamentare senza garantire una partecipazione autenticamente democratica.
Si tratta di difetti superabili? È, quella al vaglio delle Camere, una proposta perfettibile? Sul punto si è già espresso qui Salvatore Curreri.
Mi limito a rilevare che, in realtà, il discorso andrebbe rovesciato: occorrerebbe chiedersi se sia proprio necessario, a fronte degli inconvenienti e dei rischi indicati, introdurre un nuovo strumento di normazione, potenzialmente in grado di cambiare il metodo stesso di esercizio della funzione legislativa. Il gioco vale davvero la candela?