C’è un aspetto del caso Diciotti che, a mio modesto parere, non è stato sufficientemente evidenziato: la scelta del Ministro dell’interno di depositare una memoria scritta, anziché presentarsi di persona presso la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato.
Scelta legittima, s’intende, giacché, ai sensi del secondo comma dell’art. 135-bis del regolamento di quella camera, la Giunta può consentire alla persona nei cui confronti è stata richiesta l’autorizzazione a procedere “di prendere visione degli atti del procedimento, di produrre documenti e di presentare memorie”.
Scelta, forse, dettata anche dalla necessità politica di consentire al Presidente del Consiglio Conte, al Vice-Presidente del Consiglio Di Maio e al Ministro delle Infrastrutture Toninelli – formalmente estranei al procedimento e quindi non titolati ad essere auditi dalla Giunta – di potervi comunque intervenire allegando loro documenti alla memoria scritta del ministro dell’interno al preciso scopo di poter esprimere la loro condivisione politica dell’atto imputato al ministro dell’interno (ma può una simile condivisione essere giuridicamente rilevante in assenza, a quanto pare, di una delibera formale del Consiglio dei ministri che impegni l’intero esecutivo? È possibile ipotizzare la responsabilità giuridica non di uno, né di tutti, ma di parte dei ministri?).
Stratagemma, questo, contestato dalle opposizioni, le cui obiezioni circa irricevibilità di tali ulteriori documenti sono state però respinte dal Presidente relatore nella seduta dello scorso 7 febbraio
Ma, come dicevamo, c’è un terzo aspetto che la decisione del ministro dell’interno solleva: la volontà di sottrarsi al confronto politico con i senatori della opposizione in una sede ristretta, quale è la Giunta, in cui esso sarebbe stato certamente ben più serrato ed incisivo di quanto invece consente l’Aula.
Non è una scelta causale, né isolata. La nostra è una democrazia in cui il confronto politico, che ne costituisce l’anima, è quasi del tutto sparito.
Non ci si confronta più nelle Aule parlamentari dove non ci ascolta e quando si parla, ci si rivolge soprattutto al proprio elettorato. Chi, come me, segue talvolta le sedute parlamentari dai canali televisivi e web di Camera e Senato, nota immediatamente che la regia televisiva riprende sempre e solo in primo piano l’oratore o il Presidente, senza allargare l’inquadratura all’intero emiciclo. Ed anzi, se accade qualche disordine, l’immagine subito stacca sul Presidente sicché il telespettatore non ha modo di capire quel che sta realmente accadendo.
Basta però andare a cercare qualunque filmato “non ufficiale” di seduta per rendersi conto di quel che accade davvero. Molti parlamentari non ascoltano chi sta parlando: chi legge il giornale, chi guarda il pc, chi digita sullo smartphone, chi parla al cellulare (e, per non essere disturbato, non si perita di utilizzare gli auricolari…) o con uno o più colleghi, riuniti come se fossero alla buvette (che pure, volendo, sarebbe a pochi passi). Talora il brusio è così elevato che, specie alla Camera, anche chi vorrebbe ascoltare, con tutta la buona volontà non vi riesce E a nulla valgono i costanti numerosi richiami all’ordine del Presidente di turno, privo evidentemente di qualunque autorevolezza se talora è lui stesso a non dare il buon esempio.
Per contrappasso, proprio in queste settimane gli italiani hanno potuto, forse per la prima volta, vedere quanto serrata, viva e incalzante sia stata la discussione alla Camera dei Comuni inglese sulla Brexit, sotto la presidenza di un vero Presidente della Camera che tutela il Parlamento (il mitico Bercow).
Ma l’assenza di confronto parlamentare è qualcosa che viene da lontano, che affonda le radici fin nelle irridenti e beffarde assenze di Berlusconi al Premier Question time (istituto non a caso mai decollato perché, come scritto da Alessandro Torre, non siamo la Gran Bretagna) e che, a suo modo, riflette anche lo scadimento di cultura politico e parlamentare dei suoi protagonisti.
Se un tempo a tale assenza di confronto parlamentare supplivano le “terze camere” televisive, oggi sembra non più. Le sfide televisive tra i capi delle formazioni politiche sono ormai materiale d’archivio (non a caso non ve ne sono state nelle ultime elezioni politiche). I leader politici, specie quelli di (ogni) maggioranza, tendono accuratamente ad evitare qualunque confronto che potrebbe portare l’opinione pubblica a dubitare delle loro inoppugnabili e semplici(stiche) verità. Ormai siamo arrivati al punto che i leader di partito impongono ai conduttori di talk-show financo i giornalisti da invitare, pena la minaccia di boicottare – loro e tutti gli altri membri di partito – la trasmissione.
Giornalisti, peraltro, che per mancata preparazione, pavidità o incapacità, non sono in grado di replicare a qualunque panzana detta dal politico. In tale contesto, il caso qui segnalato di Sgarbi è solo la punta dell’iceberg di come, in assenza di contraddittorio e in presenza di giornalisti che badano più all’audience che alla qualità, certe trasmissioni televisive e radiofoniche siano complici dell’attuale basso livello di informazione politica.
Eppure si potrebbe fare qualcosa. Perché ad esempio, ritornando da dove siamo partiti, non invitare formalmente il ministro dell’interno in Giunta perché fornisca “i chiarimenti che egli reputi opportuni o che la Giunta stessa ritenga utili”, come previsto dal citato art. 135-bis, secondo comma, R.S.? E perché non trasmettere tale seduta in diretta televisiva, cosicché gli elettori si possano fondatamente e direttamente farsi un’idea della vicenda, ascoltando le ragioni e i punti di vista di tutti? Perché, insomma, il Parlamento in questa vicenda, non prova a recuperare la sua centralità, tanto decantata a parola quanto negata nei fatti? Presidente Gasparri, è chiedere troppo?