È passato un mese da quando la Corte costituzionale ha giudicato inammissibile il ricorso dei senatori del Pd relativo alla controversa approvazione della legge di bilancio 2019. Della vicenda e del ricorso per conflitto di attribuzione fra i poteri dello Stato abbiamo ripetutamente parlato in questo giornale. Ora la Corte ha depositato il testo della decisione (ord. 17/2019 dell’8 febbraio 2019) e dunque conosciamo nel dettaglio il suo ragionamento che era stato solo accennato nel comunicato stampa del 10 gennaio.
Il primo punto qualificante della decisione riguarda i soggetti che possono ricorrere. I giudici osservano che «la Costituzione individua una sfera di prerogative che spettano al singolo parlamentare, diverse e distinte da quelle che gli spettano in quanto componente dell’assemblea». Si tratta di «un complesso di attribuzioni inerenti al diritto di parola, di proposta e di voto, che gli spettano come singolo rappresentante della Nazione, individualmente considerato, da esercitare in modo autonomo e indipendente». Ecco dunque che la Corte riconosce ai singoli parlamentari la possibilità di sollevare conflitto di attribuzioni nelle ipotesi di violazioni delle prerogative che la Costituzione attribuisce loro.
Al contempo i giudici costituzionali negano che il ricorso possa essere proposto da una minoranza parlamentare, da un decimo dei componenti del Senato, «perché la quota di attribuzioni che la Costituzione conferisce a una tale frazione del corpo dei parlamentari riguarda ambiti diversi da quelli oggetto del presente conflitto». Eppure, se si guarda alla sostanza delle cose, si vede che le modalità di approvazione della legge di bilancio hanno messo in discussione più ampiamente il ruolo dell’opposizione; in vicende come questa, più ancora che le prerogative dei singoli parlamentari, sono a rischio quelle delle minoranze parlamentari, con effetti a cascata sugli equilibri della forma di governo egemonizzata dal Governo grazie alla supina collaborazione della maggioranza.
Il secondo punto qualificante della decisione riguarda le lesioni che possono essere invocate. Coerentemente con i precedenti, l’ordinanza afferma che il ricorso non può fondarsi sulla scorretta applicazione dei regolamenti parlamentari. Lo impedisce il «principio di autonomie delle Camere costituzionalmente garantito». Piuttosto è necessario che vi sia una sostanziale negazione o un’evidente menomazione delle prerogative del parlamentare. In altre parole, secondo i giudici costituzionali il giudizio è ammissibile, e quindi in ipotesi il ricorso potrà essere accolto, soltanto se la lesione oltrepassi un certo livello di gravità.
L’abbinata fra maxiemendamento governativo e voto di fiducia ha determinato «una compressione dell’esame parlamentare». Tuttavia non è stata superata «quella soglia di evidenza che giustifica l’intervento della Corte per arginare l’abuso da parte delle maggioranze a tutela delle attribuzioni costituzionali del singolo parlamentare»; in altre parole, le prerogative dei parlamentari non sono state sostanzialmente negate e nemmeno evidentemente menomate. I giudici giungono a questa conclusione tenendo conto anche di due fattori: la fretta determinata dal protrarsi della trattativa del Governo con l’Unione europea, da un lato, gli effetti dell’applicazione di alcune recenti modifiche del regolamento del Senato dall’altro («La breve durata dell’esame e la modifica dei testi in corso d’opera (…) potrebbero essere state favorite dalle nuove regole procedurali»).
Insomma la Corte pensa che non sia stato superato il livello di guardia. Ma questo giudizio, oltre ad essere opinabile, rischia pericolosamente di sovrapporsi a quello sul merito del ricorso, che sarebbe seguito laddove la Corte l’avesse giudicato ammissibile; è come se la Corte avesse anticipato il giudizio di merito al momento della valutazione sull’ammissibilità del ricorso.
Il terzo punto qualificante riguarda il futuro: «occorre arginare gli usi che conducono a un progressivo scostamento dai principi costituzionali, per prevenire una graduale ma inesorabile violazione delle forme dell’esercizio del potere legislativo, il cui rispetto appare essenziale affinché la legge parlamentare non smarrisca il ruolo di momento di conciliazione, in forma pubblica e democratica, dei diversi principi e interessi in gioco». Tuttavia, l’accoglimento di futuri ricorsi potrebbe trovare ostacolo proprio nell’idea della soglia. Infatti, quando la Corte ha ragionato allo stesso modo per i decreti legge, individuando la soglia dell’evidente mancanza dei requisiti, il risultato è stato che i giudici costituzionali non hanno quasi mai ravvisato la violazione della soglia, e quindi che il Governo ha continuato ad abusare del decreto legge.
Rendendomi conto che i miei commenti non sono graditi, faccio solo brevemente notare che con le mie osservazioni – ormai cancellate – sotto l’articolo del prof. Prisco pubblicato il 30 dicembre su questo sito, ho provato a difendere il diritto di azione individuale, “randomico”, dei parlamentari legato alla natura stessa dell’assemblea e del mandato (art. 67). La minoranza non è un concetto costituzionale, perché qualsiasi minoranza è garantita dal diritto individuale. Il gruppo è una categoria “interna corporis”. Rimane la questione della garanzia costituzionale del decimo dei componenti di una camera o del quinto di una commissione. Ma non è coperta dal diritto di agire individuale? La Corte dice solo (giusto o sbagliato) che nel caso sotto esame non era in gioco l’articolo 72, 3. Mi sembra quindi tutto chiarissimo, o almeno abbastanza chiaro e condivisibile.