Per quanto prevedibile alla luce della precedente giurisprudenza costituzionale in tema di interna corporis, la decisione della Corte costituzionale circa l’inammissibilità del conflitto di attribuzioni sollevato dai senatori del Partito democratico a seguito della compressione dei tempi parlamentari di esame della legge di bilancio, suscita comunque parecchia delusione.
Premesso che, ovviamente, si dovrà attendere il deposito della sentenza per svolgere considerazioni più circostanziate, il comunicato stampa del 10 gennaio solleva più di una perplessità sotto entrambi i profili – soggettivo e oggettivo – interessati dal ricorso.
Sotto il profilo soggettivo, cioè della legittimazione a presentare ricorso per conflitto di attribuzioni a tutela delle attribuzioni costituzionali, il comunicato fa riferimento solo ai singoli parlamentari. Sembrerebbe, dunque, che non abbiano titolo a sollevare ricorso gli altri soggetti menzionati anche a nome del quale era stato presentato ricorso: minoranze parlamentari qualificate (un decimo), gruppo parlamentare, opposizione. Il che pare confermare che si tratta di soggetti non titolari di proprie attribuzioni costituzionali ma, tutt’al più, forme o strumenti attraverso cui il parlamentare esercita la sua funzione.
Circa la legittimazione del singolo parlamentare a sollevare conflitto di attribuzioni, come noto la Corte costituzionale, pur dichiarandolo finora inammissibile (ordinanze nn. 163/2018, 277/2017, 149/2016, 177/1998) ha sempre lasciato “impregiudicata la questione se in altre situazioni siano configurabili attribuzioni individuali di potere costituzionale, per la cui tutela il singolo parlamentare sia legittimato a ricorrere allo strumento del conflitto tra poteri dello Stato”.
Nel comunicato, la Corte ora afferma che “ha anzitutto ritenuto che i singoli parlamentari sono legittimati a sollevare conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale in caso di violazioni gravi e manifeste delle prerogative che la Costituzione attribuisce loro”. Dal che, però, non si comprende se la Corte abbia dichiarato ammissibile il ricorso dei singoli parlamentari a tutela delle loro prerogative solo in caso di violazioni grave e manifeste solo in astratto, non riscontrate come vedremo nel caso specifico (il che costituirebbe un passo indietro rispetto alle precedenti citate ordinanze in cui si faceva generale riferimento ad “attribuzioni individuali di potere costituzionale”); oppure l’abbia dichiarato ammissibile (per la prima volta!) nel caso specifico, ritenendo piuttosto il conflitto inammissibile solo sotto il profilo oggettivo.
Sotto quest’ultimo profilo, la Corte ammette che per l’approvazione del bilancio 2019 vi sia stata una “contrazione dei lavori” parlamentari “determinata da un insieme di fattori derivanti sia da specifiche esigenze di contesto sia da consolidate prassi parlamentari ultradecennali sia da nuove regole procedimentali”; “tutti (…) fattori [che] hanno concorso a un’anomala accelerazione dei lavori del Senato, anche per rispettare le scadenze di fine anno imposte dalla Costituzione e dalle relative norme di attuazione, oltre che dai vincoli europei”.
Tutti argomenti che sollevano diversi interrogativi: in che senso le nuove regole parlamentari approvate dal Senato nel 2017 hanno contribuito alla contrazione dei lavori parlamentari? Si vuol forse dire che, anziché migliorare, hanno peggiorato la disciplina della sessione di bilancio, appesantendola? Il rispetto delle scadenze di fine anno per l’approvazione del bilancio può dirsi imposto da una Costituzione che prevede l’esercizio provvisorio? In che rapporto si pone il riferimento alle “consolidate prassi parlamentari” rispetto alla potestà regolamentare di ciascuna camera che si esercita primariamente attraverso il regolamento che ciascuna camera deve approvare a maggioranza assoluta ex art. 64.1 Cost.? In tale contesto, che forza vincolante ha l’art. 72 Cost. secondo cui “ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una Commissione e poi dalla Camera stessa, che l’approva articolo per articolo e con votazione finale”?
Riguardo a quest’ultima domanda, sono costretto a ripetere quanto, ahimè, già scritto: per la Corte costituzionale l’art. 72 Cost. non ha alcun contenuto immediatamente precettivo, poiché a sua giudizio la sua attuazione è interamente rimessa all’insindacabile potestà regolamentare delle Camere (“secondo le norme del suo regolamento”), comprendente non solo le norme regolamentari ma anche le loro prassi attuative, per quanto decise a colpi di maggioranza (non assoluta).
Ma il passaggio che francamente lascia maggiormente perplessi è la chiusa finale del comunicato. Da un lato, la Corte costituzionale ritiene, nelle circostanze date, che “nelle violazioni denunciate” non si riscontra “quel livello di manifesta gravità che, solo, potrebbe giustificare il suo intervento”. Dall’altro, però, avvisa “che per le leggi future simili modalità decisionali dovranno essere abbandonate altrimenti potranno non superare il vaglio di costituzionalità”. Come dire, stavolta transeat, ma la prossima…. Tale conclusione, però, mi pare, giuridicamente contraddittoria perché delle due l’una: o le violazioni denunciate non sono di manifesta gravità, e allora sono replicabili in futuro; oppure sono di manifesta gravità, e allora non sono replicabili. Tertium non datur.
Come si vede, sono molti i nodi interpretativi che il semplice comunicato della Corte solleva e che la ordinanza della Corte dovrà sciogliere. A noi, per quel poco che vale, resta il profondo rammarico per l’occasione persa per affermare il primato della Costituzione anche in ambito parlamentare in una circostanza, peraltro, del tutto peculiare come l’esame della legge di bilancio.
Perché quando l’arbitro, di fronte ad un fallo d’espulsione, sventola il cartellino giallo, rimane il dubbio che ormai si sia dimenticato dove ha messo il rosso, tanto è il tempo che non lo utilizza.