Il discorso del Presidente Mattarella: «L’Italia che ricuce» ai tempi della disunità nazionale

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di Salvatore Prisco

Un giorno qualche mio collega dovrà pensarci – visto che una ricerca di tal genere non mi risulta essere mai stata compiuta – ad assegnare una tesi di laurea o di dottorato sulle immagini del Paese (e dei caratteri dei rispettivi autori) che emergono dai messaggi di fine d’anno dei Presidenti della Repubblica pronunciati fino alla sua stesura, o forse il proposito potrà realizzarlo un brillante ricercatore in cerca di gloria e di carriera, o infine un vecchio professore che di storia costituzionale ne ha vista passare tanta (e allora chi scrive si candida alla bisogna).

Nell’attesa che qualcuno raccolga la suggestione, si può provare a dare un contributo di riflessione partendo dall’ultima esternazione di San Silvestro, in ordine di tempo.

Una premessa ovvia, ma che non fa male ricordare: nel nostro sistema il Capo dello Stato rappresenta per definizione l’unità nazionale. È talora accaduto, in passato, che la sua maggioranza di investitura sia stata coincidente con quella del governo del momento, o l’abbia di poco superata, ma perlopiù questa esigenza richiesta dal ruolo è stata tenuta presente, finendo per tradursi nella ricerca di un più largo consenso “d’ingresso”, per così dire.

È anche avvenuto che un Presidente eletto alla carica a larghissima maggioranza si sia messo a un certo punto a picconare il quartier generale, o che – nella crisi e nell’impotenza decisionale evidente di un sistema politico – la (nella previsione testuale) assai lunga durata della carica, tale da svincolare il titolare dell’organo da eventuali pretese di “cattura” da parte di una maggioranza contingente e da mettere la collettività al riparo da sue tentazioni di sollecitare una rielezione in forza di una base di sostegno già in partenza da lui ritenuta favorevole all’intento, sia stata ulteriormente prolungata dal conferimento eccezionale di un secondo mandato, poi solo parzialmente svolto.

In ogni caso e comunque sia arrivato al Quirinale, l’uomo che vi siede – fin qui: nel futuro, si spera, anche una donna – non può essere mai appiattito sulle ragioni della sola maggioranza, né essere abitualmente espressione di quelle dell’opposizione (il che, si badi,  ha finito per accadere anche laddove il meccanismo costituzionale ha ammesso ed effettivamente praticato coabitazioni tra maggioranze presidenziali e parlamentari distinte). Metterà dunque da parte il suo intimo sentire e – dovendo svolgere una funzione di equilibrio – nei fatti la sua posizione sarà giocoforza oscillante, al modo di un pendolo. I soggetti che incarnano gli organi costituzionali che fanno vivere in concreto la dinamica della forma di governo non possono del resto avere posizioni e poteri definibili una volta per tutte, ma sono pedine di un gioco funzionale che li coinvolge nel complesso, per cui i loro comportamenti effettivi acquistano senso solo in ragione delle reciproche relazioni del momento, naturalmente dentro paletti fissati dalle norme che disegnano il figurino di riferimento e non un altro, all’interno della tipologia modellistica nota, in modo che se ne possano identificare le caratteristiche essenziali.

Influisce inoltre la variabile dei caratteri personali e del grado di equilibrio nella valutazione delle necessità del momento politico e ci sono (indefinibili, impalpabili, ma pur di peso decisivo, nella ricostruzione del quadro complessivo) la prassi e lo stile di gestione della carica da parte del suo titolare pro tempore. Ha scritto giustamente, in un’altra stagione storica, Carlo Fusaro, Il Presidente della Repubblica nel sistema bipolare: spunti dalla prassi più recente, in La prassi degli organi costituzionali, a cura di Augusto Barbera e Tommaso Francesco Giupponi, Bologna, 2008, 24:  «Anche se compito della scienza giuridica è quello di individuare prescrizioni e non tanto descrivere ciò che di fatto avviene (campo questo di prevalente indagine da parte dei sociologi e, nel nostro caso, dei sociologi della politica e dei politologi), lo studio della prassi anche per il giurista, specie costituzionalista, è essenziale come necessario parametro di contesto del proprio lavoro: a meno che questi non sia disposto a confinarsi  nell’ambito della pura astrazione».

Così, in realtà, la stessa scenografia della tradizionale allocuzione di fine d’anno ha la sua importanza, come pure le immagini  e i simboli che accompagnano le parole, perché rafforzano le intenzioni che si intende trasmettere.

* * *

Quest’anno, il Presidente ha abbandonato la tradizionale scrivania per una poltroncina (Pertini, se la memoria non inganna, scelse una volta di rivolgersi agli Italiani assiso in una poltrona, davanti a un camino acceso e tenendo fra le mani l’inseparabile pipa: un nonno dei suoi connazionali, più che un padre o uno zio e perdipiù di quelli cui si rende omaggio da nipoti un poco scavezzacolli che, nell’amarlo, ne temono tuttavia l’indole fumantina) e, accanto alle classiche bandiere italiana ed europea e al vessillo palatino, non ha collocato un tavolo di libri scelti con attenzione alla circostanza o col testo della Carta Costituzionale, ma ha voluto al suo fianco – su un cavalletto da pittore – un disegno colorato, scelto  tra quelli ricevuti da ragazzi conosciuti durante la visita a un istituto che ospita e assiste giovani affetti da autismo.

Nel merito, il discorso è incominciato con una preventiva dichiarazione di consapevolezza, ma anche di orgoglio di ruolo, giacché, se siamo oggi nel tempo in cui «molti vivono connessi in rete e comunicano di continuo ciò che pensano e anche quel che fanno nella vita quotidiana» (scelga il lettore tra gli svariati esempi anche di politici che amano siffatta modalità comunicativa coi loro followers) «questo appuntamento – nato decenni fa con il primo Presidente, Luigi Einaudi – non è un rito formale. Mi assegna il compito di rivolgere, a tutti voi, gli auguri per il nuovo anno», dunque un dovere della carica, ma, beninteso, seppure sia «un appuntamento tradizionale, sempre attuale e, per me, graditissimo».

Egli ha poi pedagogicamente insistito su che cosa voglia dire «sentirsi “comunità”», che «significa condividere valori, prospettive, diritti e doveri. Significa “pensarsi” dentro un futuro comune, da costruire insieme. Significa responsabilità, perché ciascuno di noi è, in misura più o meno grande, protagonista del futuro del nostro Paese. Vuol dire anche essere rispettosi gli uni degli altri. Vuol dire essere consapevoli degli elementi che ci uniscono e – nel battersi, come è giusto, per le proprie idee – rifiutare l’astio, l’insulto, l’intolleranza, che creano ostilità e timore».

Logicamente connessa a questa precisazione, allora, la delucidazione di che cosa sia realmente la sicurezza, la cui presunta mancanza o paventata messa in pericolo angustia tanti: «La vera sicurezza si realizza, con efficacia, preservando e garantendo i valori positivi della convivenza.  Sicurezza è anche lavoro, istruzione, più equa distribuzione delle opportunità per i giovani, attenzione per gli anziani, serenità per i pensionati dopo una vita di lavoro: tutto questo si realizza più facilmente superando i conflitti e sostenendosi l’un l’altro».

«Solidarietà» è stata dunque la parola usata come filo rosso per cucire le parti del suo discorso e «l’Italia che ricuce», infatti, è risultata l’immagine-bussola, riferita in particolare alle organizzazioni di volontariato, da non mortificare con regimi fiscali vessatori, anche perché spesso rimediano a ritardi dello Stato (benché il Sistema Sanitario Nazionale sia stato difeso, nel quarantennio dalla istituzione, nell’ispirazione universalistica e nella qualità non certo di rado mostrata). Se non si è contato male, il termine è ricorso quattro volte (di cui una per dichiarare vicinanza ai familiari del giovane giornalista Antonio Megalizzi, ucciso a Strasburgo in un attentato di un fanatico islamico), mentre in una  – in riferimento al messaggio anche di «coesione sociale» di cui è portatore Papa Francesco – si è impiegata un’espressione equivalente, ma tutta l’esternazione è stata in effetti rivolta a ricostruire una trama di apertura vicendevole tra cittadini (e verso gli stranieri che vivono qui) per sovvenire i loro bisogni, traendo spunto da atti di gentilezza di i bambini, sognatori della comunità fantastica di «Felicizia», oppure dei sopra ricordati giovani affetti da autismo, o ancora dei carabinieri che, da lei avvertiti, si recano a casa di una anziana signora, non per accertare un reato commesso ai suoi danni, ma per confortarne la solitudine. Mentre ad altri corpi militari di elevata specializzazione, non tocca  certo (l’allusione è indiretta, ma chiara) tappare le buche delle strade di Roma.

«Buoni sentimenti?», si è chiesto Mattarella. Certo, si è risposto, ma perché sono appunto essi ad innervare il senso di comunità del quale ha inteso discorrere.

Non poteva mancare un riferimento alle vicende che hanno accompagnato l’approvazione della legge di bilancio, promulgata per evitare l’esercizio provvisorio, ma con l’esortazione a Governo e Camere a evitare per il futuro prassi devianti (ereditate dal passato, ma questo lo aggiunge chi commenta) e ad attuarla perciò con equilibrio, recuperando nell’esecuzione quanto non è stato possibile nella preparazione: un esito ampiamente prevedibile, sicché l’averlo sottolineato su queste pagine non è per chi scrive un gran merito. Assieme, si è ascoltata la riconferma dell’ancoraggio europeo che l’Italia si è liberamente dato, accompagnata dall’invito a confrontarsi con serenità e serietà nella prossima campagna per eleggerne il Parlamento.

* * *

Come concludere questa nota? In musica.

Una rapida ricerca sul web porta a differenziare, nei termini che seguono, controcanto e coro. Se il secondo è «l’unione di due – tre o più voci che fanno la stessa cosa (cantano la stessa melodia), ma in tonalità differenti», il primo se ne differenzia «in quanto, come si intuisce dall’etimologia della parola, si tratta di un canto che non rafforzerà direttamente la prima voce, ma andrà a completarla con una melodia che si intreccerà con la prima voce, dando vita ad una vera e propria composizione melodica che senza una delle parti risulterebbe suonare completamente diversa».

Segue un esempio, che piace riportare, perché rende assai bene l’idea di un controcanto, quello presente in “Pensieri e Parole” di Lucio Battisti:

«Conosci me  – Che ne sai di un viaggio in Inghilterra

Quel che darei – Che ne sai di un amore israelita

Perché negli altri ritrovassi gli occhi miei – Di due occhi sbarrati che mi han detto: “Bugiardo,  è finita”».

Finché il Paese non ritroverà un’opposizione in grado di svolgere con efficacia la sua funzione (perché certo si può vivere anche con una sola gamba, ma lo si fa con grande disagio, essendo la condizione normale quella di avere due gambe, entrambe efficienti), la prestazione di unità che è nel DNA della Presidenza della Repubblica richiede che chi la incarna si faccia dunque carico del controcanto.

Un’altra sfida non lontana, del resto, lo attende a breve, sul terreno della difesa sostanziale dell’unità nazionale: quella della maggiore autonomia legislativa, in materie cruciali, delle regioni ordinarie che l’hanno in vario modo richiesta, ex art. 116, comma 3° della Costituzione, nonché dell’attribuzione dei relativi finanziamenti, in una logica destinata ad incidere pesantemente sulla formazione di un fondo di perequazione, senza vincoli di destinazione, che assicuri, per i territori con minore capacità fiscale per abitante, risorse che comunque prodotte o devolute, devono consentire agli enti territoriali di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite e che, per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, secondo il chiaro tenore letterale (sopra riportato) dell’ art.119 della Carta Costituzionale.

Chi volesse comprendere quanto lo stato di cose che va maturando preoccupi il nostro Mezzogiorno, può documentarsi ascoltando – in attesa degli Atti in volume – il dibattito tenutosi a Napoli lo scorso 19 dicembre nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Federico II, sul tema «Nord e Sud nella Costituzione tra promessa mancata e attuazione», che è disponibile  sul sito di Radio Radicale (alla quale, ora pesantemente definanziata, va la solidarietà di chi ne apprezza l’essenziale funzione di strumento informativo dell’opinione pubblica).

Foss’anche solo per questa attesa e garanzia che egli tenga saldo il timone dell’interesse generale – in realtà, più che tanto, tutto quel che serve –  lunga vita, Presidente.

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