Ieri è stato presentato il ricorso per conflitto di attribuzione di alcuni senatori del Pd contro il Presidente del Senato e il Governo per violazione delle attribuzioni costituzionali spettanti alle minoranze a seguito del mancato effettivo esame in commissione e in Aula della legge di bilancio, la più politica tra tutte le leggi perché stabilisce le entrate e le spese dello Stato.
È un’iniziativa assolutamente doverosa perché mai era accaduto che all’esame di una legge così importante per l’indirizzo politico del paese si destinasse un così breve lasso di tempo (appena 12 ore per esaminare un documento di 270 pagine articolato in 1142 commi).
Era prevedibile che, di cattivo precedente in cattivo precedente, si arrivasse ad avere così poco rispetto del Parlamento. Da tempo, infatti, le leggi di bilancio sono state approvate tramite il ricorso del Governo alla questione di fiducia su un maxi-emendamento interamente sostitutivo del testo in discussione. Ma mentre, in passato, tale maxi-emendamento blindava l’accordo raggiunto in Commissione bilancio all’interno della maggioranza e tra questa e l’opposizione su alcune specifiche modifiche, oggi esso invece è stato sostanzialmente imposto dal Governo al Senato, senza che fosse data a quest’ultimo la possibilità di “conoscerlo” per deliberare su di esso.
Il punto, quindi, non è tanto il ricorso al mix questione di fiducia-maxiemendamento quanto la totale compressione dei tempi di esame parlamentare. Ciò mi pare opportuno precisare perché, a prescindere dall’esito del ricorso, ci si dovrà pur porre il problema di rivedere la procedura della sessione di bilancio, in modo da garantire il diritto della maggioranza di governo di avere tempi certi di decisione e di potersi “difendere” dagli emendamenti clientelari e ostruzionistici delle opposizioni, e il diritto di queste ultime di avere tempi certi per svolgere il proprio ruolo di esame critico e di contro-proposta.
In questa prospettiva andrebbe ripensato anche il ruolo dell’Ufficio parlamentare di bilancio. Tale organo è stato istituito allo scopo di permettere al Parlamento di avere una fonte di informazione e di analisi autonoma rispetto al Governo, così da non dover dipendere da esso. Ma è sotto gli occhi di tutti, mi pare, che di fronte ad una maggioranza sorda, insensibile ad ogni richiamo in nome della volontà sovrana del popolo, ed una opinione pubblica che non è interessata alle forme ma alla sostanza dei problemi, il ruolo di tale organo si riduce a quello, sostanzialmente inutile, di “grillo parlante”. Al pari dell’altro organo tecnico – il Comitato per la legislazione – i cui richiami sulla cattiva qualità del testo della legge di bilancio sono anche in questo caso rimasti sostanzialmente inascoltati.
Il punto è – come ben sottolineato qui da Alessandro Morelli – che alla gran parte dei cittadini poco importa il modo con cui si perviene alla decisioni, senza capire che non solo chi decide in fretta di solito decide male (la vicenda dell’aumento della tassazione del Terzo settore lo dimostra ampiamente) ma anche che si spiana così la strada ad una democrazia autoritaria in cui pochi decidono e gli altri ubbidiscono, contenti per quel turno di aver raccattato qualcosa. Il che è una sconfitta per tutti, perché, per la forza dei precedenti, quel che oggi accetti e giustifichi in base ai tuoi interessi domani ti si potrebbe ritorcere contro. Il rispetto delle procedure dovrebbe essere quindi interesse supremo di tutte le forze politiche perché a loro garanzie.
Quando la maggioranza, invece, si fa forte della propria forza numerica per travolgere tutto e tutti dovrebbero essere gli organi istituiti a garanzia del rispetto delle istituzioni e delle regole che si sono date ad opporsi. E quando l’astuzia della maggioranza trova nuove forme di aggiramento delle regole dovrebbe essere il Presidente dell’Assemblea ad attivarsi perché si introducano nuovi divieti.
Invece abbiamo avuto e abbiamo tuttora Presidenti delle Camere evidentemente non all’altezza del loro ruolo: qualcuno ricorda una loro coraggiosa decisione in questi ultimi anni contraria alla maggioranza? Qualcuno ha notato che la Presidente del Senato ha dovuto di tutta fretta sostituire alcuni membri della Giunta per il regolamento entrati al Governo prima di convocarla perché se ne era dimenticata, tanto è la sua considerazione di questo organo? Qualcuno ha sentito le loro proteste per il modo con cui il Governo ha umiliato il Parlamento? I cattivi precedenti ricordati all’inizio sono dilagati anche perché le stesse decisioni regolamentari non sono prese dal Presidente su parere della Giunta ma vengono prese direttamente da quest’ultima, dove ovviamente la maggioranza la fa da padrona.
Per questo l’ultimo baluardo a difesa del Parlamento è rimasta la Corte costituzionale. Ed è un baluardo debole perché essa ha nel tempo progressivamente esteso l’insindacabilità degli atti parlamentari interni (i c.d. interna corporis) anche quando ciò andava a scapito del rispetto delle – poche ma essenziali – norme costituzionali che si occupano dell’attività parlamentare, degradate a norme programmatiche la cui attuazione spetta esclusivamente ai regolamenti parlamentari.
È accaduto per il computo degli astenuti, per l’autodichia (la giustizia interna delle camere sui propri dipendenti), sui c.d. pianisti, cioè sui parlamentari che votano al posto di altri colleghi assenti, e anche sul procedimento legislativo, quando, nel caso della legge sulle unioni civili, il testo del maxi-emendamento transitò per poche ore in commissione così da pervenire immediatamente in aula (ordinanza n. 149/2016).
Questa consolidata giurisprudenza non mi fa nutrire molte speranze sull’accoglimento del ricorso per conflitto ieri presentato. C’è però un elemento nuovo e di peso che potrebbero indurre la Corte non a smentirsi – non lo farebbe mai apertamente – ma, come dire?, a meglio precisare il suo pensiero, e cioè il fatto che il ricorso verte su una legge – quella di bilancio – che gode per Costituzione di una espressa riserva di assemblea (art. 72.4), in ideale contrapposizione all’iniziativa riservata del Governo.
Questo nuovo elemento oggettivo – cioè la violazione dell’esame in commissione e in aula articolo per articolo del disegno di legge di bilancio (art. 72.,1 Cost,) – potrebbe indurre la Corte a schiudere finalmente la porta – in teoria aperta, in pratica sempre negata (sentenze nn. 225/2001, 277/2017 e 280/2017; ordinanze nn. 177/1998, 222/2009 e 149/2016) – del conflitto di attribuzioni sollevato dal singolo o singoli parlamentari a tutela delle attribuzioni costituzionali in cui si svolge la loro rappresentanza politica della Nazione (art. 67).
A mio modesto parere, le ipotesi prospettate circa i titolari del conflitto – il gruppo parlamentare, un quinto o un decimo dei componenti di ciascuna camera – rischiano di essere dichiarate inammissibili se non radicate sulla violazione dell’esercizio del mandato parlamentare.
Dubito, infatti, che una giurisprudenza costituzionale, come detto, fortemente restrittiva possa riconoscere al gruppo parlamentare specifiche attribuzioni costituzionali anziché ritenerli semplicemente elementi di riferimento per la composizione delle commissioni legislative e d’inchiesta. Del resto, la Corte finora si è guardata bene dall’affrontare il tema della natura giuridica dei gruppi parlamentari in riferimento alla loro duplice relazione sia con i partiti politici che con le camere, limitandosi ad una loro definizione – “riflesso istituzionale del pluralismo politico, che del sistema rappresentativo costituiscono struttura portante” (sentenza 49/1998) – più politica che giuridica.
Parimenti le prerogative costituzionali attribuite a specifiche minoranze parlamentari – la rimessione in aula dei progetti di legge assegnati per l’approvazione in commissione (art. 72.3 Cost,.) o la richiesta di una mozione di sfiducia (art. 94.4 Cost,) – rischiano di essere eccessivamente riferite all’interno degli specifici procedimenti se non vengono considerate come espressioni specifiche di un più generale potere di controllo delle minoranze che solo l’aggancio all’esercizio della funzione parlamentare ex art. 67 Cost. può dare.
Infine, per quanto condivisibile, temo che rimanga completamente estranea la possibilità di un ricorso delle opposizioni parlamentari in quanto tali, non avendo esse un solido aggancio al testo costituzionale (come invece, non a caso, la riforma costituzionale del 2006, condivisibilmente prevedeva).
Condivisibilmente perché si continua a declinare il principio della separazione dei poteri in riferimento al rapporto tra Parlamento e Governo, come se fossimo ancora nell’Ottocento quando questi due soggetti istituzionali erano effettivamente divisi perché espressione di due classi sociali diverse (borghesia e aristocrazia). Oggi la vera separazione dei poteri è tra maggioranza e Governo, da un lato, e opposizione dall’altro.
Per questo, se si vuole mantenere in equilibrio il sistema, bisogna rafforzare gli organi di garanzia e ideare nuovi strumenti a tutela delle minoranze. In questo il ricorso alla Corte costituzionale appare essenziale di fronte, ripeto, ad una maggioranza che, mai come in questi tempi, si arroga il diritto di parlare a nome “dei 60 milioni di italiani” disconoscendo il valore del pluralismo e del dissenso.
Non si tratta di giurisdizionalizzare la politica, come temono coloro che ritengono che la Corte costituzionale non si dovrebbe occupare delle vicende parlamentari, di mettere precisi limiti e porre dei freni alla altrimenti per sua intima vocazione illimitata volontà politica della maggioranza.
Non a caso, del resto, l'”inventore” della Corte costituzionale così scriveva: “Sarebbe di estrema importanza attribuire il diritto di proporli [i ricorsi contro le leggi] ad una minoranza qualificata del Parlamento, tanto più che la giustizia costituzionale (…) deve necessariamente servire, nelle democrazie parlamentari, alla protezione delle minoranze” (Hans Kelsen, La garanzia giurisdizionale della Costituzione, in La giustizia costituzionale, Milano, 1981, 196)