Nei giorni scorsi mi è capitato di ascoltare qualche esponente politico della maggioranza di governo sostenere che alla gente non interessa come venga approvata la legge di bilancio. Un’affermazione, questa, ripetuta come un mantra da molti politici ogni volta che emergano questioni tecniche come quelle riguardanti il sistema elettorale o gli abusi nelle procedure di approvazione delle leggi e degli atti aventi forza di legge: “alla gente non interessano questi aspetti tecnici: noi discutiamo di formule elettorali, ma intanto i lavoratori non arrivano a fine mese e i pensionati muoiono di fame”; “alle persone che incontro per strada non importa come io faccia, ma soltanto che io garantisca la loro sicurezza”; “i cittadini non si curano delle questioni di diritto internazionale e dell’Unione europea, vogliono semplicemente che il problema degli immigrati irregolari sia risolto”; e così via.
Quel popolo tanto osannato dal mainstream populista è, in realtà, trattato quotidianamente come una massa informe, animata esclusivamente dai propri istinti primordiali (mangiare, bere, dormire al riparo dagli assalti delle fiere…).
Nell’epoca della post-postmodernità, acquisito ormai che non esistono fatti, ma solo interpretazioni, constatiamo quotidianamente che le sole interpretazioni che contano sono quelle del più forte. E il più forte oggi è chi – anche, e soprattutto, attraverso un abile impiego dei nuovi mezzi di comunicazione – riesca ad affermarsi come interprete privilegiato dei bisogni primari del “popolo”. Il quale, secondo il nuovo pensiero unico, populista e sovranista, non può desiderare altro che sopravvivere e, al massimo, stare sempre meglio, nell’unico significato che tale espressione può avere nella visione esasperatamente edonistica oggi dominante (e cioè stare in buona salute, possedere molti beni materiali e assicurare ai propri figli un’esistenza altrettanto opulenta). Tale immagine è del tutto irrealistica, dal momento che, se, da un lato, il “popolo” è composto anche da persone che hanno aspirazioni differenti, comprese istanze di carattere spirituale (l’articolo 4 della nostra Costituzione parla, infatti, anche di un “progresso spirituale della società” verso il quale dovrebbe tendere il lavoro dei cittadini), dall’altro lato, la molteplicità e l’eterogeneità degli interessi e delle condizioni sociali ed economiche di ciascuno richiederebbero politiche articolate e interventi mirati e specifici. Tutto questo però non importa, poiché tale immagine ha la forza del mito e serve perfettamente al proprio scopo.
Non v’è contraddizione tra l’esaltazione del popolo come entità astratta, per definizione pura e moralmente superiore, da difendere dalle insidie delle élites corrotte e subdole, e questa idea del popolo stesso come massa di selvaggi, ignari di tutto e a tutto disinteressati, fuorché alle proprie esigenze corporali. Il primo dei nuovi miti politici è proprio quello del cittadino elettore come “buon selvaggio”. Del resto, qual è l’unica cosa che ci rende tutti uguali, in una società globalizzata, multiculturale e sempre più frammentata, se non l’insieme delle nostre esigenze materiali primarie?
In tale scenario, sta prendendo forma, proprio in questi giorni, una “mostruosità giuridica”, com’è stata definita – per le modalità con cui ha avuto luogo – dal Presidente emerito della Corte costituzionale Ugo De Siervo l’approvazione da parte del Senato della legge di bilancio.
La vicenda è stata ricostruita in molti luoghi e anche negli interventi già pubblicati su questo giornale. A seguito di una faticosa trattativa tra il Governo italiano e la Commissione europea, il Senato ha approvato il disegno di legge di bilancio 2019, integralmente stravolto rispetto alla versione precedente per effetto di un maxiemendamento che recepisce i contenuti dell’accordo raggiunto con l’Unione europea e sul quale il Governo ha posto la questione di fiducia, senza che la Commissione bilancio abbia potuto esaminarlo. In sostanza, uno dei rami del Parlamento ha approvato la legge di bilancio (e l’altro si sta apprestando a farlo) senza che i suoi componenti l’abbiano letta e senza alcuna discussione sui suoi articoli. “Poco male!”, diranno i soliti disincantati commentatori delle prassi parlamentari, “non è la prima volta che succede!”. In realtà, come hanno ricordato qui Salvatore Curreri e Giovanni Di Cosimo, la vicenda che si sta consumando è proprio inedita, poiché in precedenza una discussione in seno alla maggioranza, alla quale avevano potuto partecipare anche le opposizioni, c’era sempre stata, visto che il testo del maxiemendamento aveva recepito finora l’accordo raggiunto in Commissione bilancio. Quest’ultima, stavolta, per motivi di tempo non ha potuto nemmeno esaminare il testo, del quale soltanto dopo l’approvazione si sta cercando di decifrare il contenuto.
Almeno due osservazioni possono svolgersi al riguardo: la prima attiene alla gravità del vulnus alla democrazia parlamentare che tale vicenda sta arrecando; la seconda alla coerenza dell’episodio con i principi dell’ideologia populista imperante.
Un voto parlamentare su un testo che palesemente non si è avuto il tempo di conoscere non è soltanto illegittimo per violazione dell’articolo 72 della Costituzione, il quale prevede che “ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una commissione e poi dalla Camera stessa, che l’approva articolo per articolo e con votazione finale”. L’approvazione di ciò che non può che essere ignoto alle Camere è un evento di grande portata simbolica, nel quale trova forma l’esautoramento definitivo delle Assemblee legislative. Il che – per passare al secondo aspetto – appare del tutto in linea con i paradigmi del pensiero populista e, in particolare, con la svalutazione della democrazia rappresentativa, a vantaggio di una mitizzata “democrazia diretta”, ritenuta la sola in grado di esprimere fedelmente la volontà del popolo sovrano.
Si tratta ovviamente di mitologia. Se con l’espressione “democrazia diretta” si fa riferimento agli istituti di partecipazione previsti in Costituzione (come il referendum abrogativo o l’iniziativa legislativa popolare), essi, in realtà, non escludono affatto, ma presuppongono la stessa democrazia rappresentativa, della quale costituiscono strumenti integrativi (il referendum abrogativo presuppone la legge approvata dal Parlamento, così come l’iniziativa popolare mira a promuovere un procedimento legislativo parlamentare). Se, invece, con la medesima formula si allude alle tecniche della cosiddetta “democrazia elettronica”, si opera un’indebita e pericolosa confusione concettuale, poiché gli strumenti digitali richiamati appaiono inidonei ad assicurare un dibattito e un metodo autenticamente democratici nell’assunzione delle decisioni politiche: si tratta, infatti, di tecniche di dubbia trasparenza, che veicolano procedimenti decisionali spesso eterodiretti. Non già di vera democrazia si tratta, in questi casi, ma, come ha scritto di recente Antonio Ruggeri, di “oclocrazia”, di governo della massa (inevitabilmente strumentalizzata da autocrati e gruppi di potere).
Che quello cui stiamo assistendo sia il culmine di un processo che parte da lontano è evidente, ma tale osservazione non toglie nulla alla gravità della situazione.
Quali sono i possibili rimedi? Mi rendo conto che parlarne significa già, nella prospettiva populista, discutere di “cose da élite”, sviluppando ragionamenti da azzeccagarbugli, da legulei. Nella logica dei populisti, il sistema delle garanzie non ha ragion d’essere, poiché il popolo buono, la cui voce è quella della sua maggioranza, espressa, in ultimo, dai suoi “portavoce”, ha già in sé le risorse per tutelare i diritti di tutti, anche quelli delle minoranze. Del resto, l’attuale Presidente del Consiglio, che, secondo Costituzione, dovrebbe dirigere la “politica generale del Governo”, assumendone la responsabilità (articolo 95), non si è forse definito l’“avvocato degli italiani”? Nella visione dei populisti il controllore e il controllato coincidono. E ovviamente non residua alcuno spazio per gli istituti del costituzionalismo moderno (sulle cui prospettive di sopravvivenza, già qualche anno fa, s’interrogava Gaetano Azzariti in un suo libro), i cui principi basilari trovarono una nitida traduzione nell’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, secondo cui “ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione”. Il populismo, infatti, non può tollerare alcuna separazione dei poteri, posto che l’unico potere legittimo è quello che emana dal popolo sovrano, il quale non può avere più di una voce istituzionale. Lo stesso populismo penale, alla lunga, non può che rinunciare a ogni residua ispirazione eretica e conformarsi all’ortodossia del populismo di governo.
Se, dunque, si vuole discutere dei rimedi che possono attivarsi contro quelli che, stando alla Costituzione vigente (almeno fino a prova contraria), appaiono come degli abusi, lo si deve fare con la consapevolezza che, in ultima analisi, nessuna garanzia giuridica risulta efficace quando vengono meno le condizioni culturali necessarie alla sopravvivenza della democrazia pluralista.
Ciò premesso, due sono i possibili strumenti di garanzia di cui maggiormente si discute: il rinvio della legge di bilancio da parte del Presidente della Repubblica e il ricorso per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato alla Corte costituzionale.
La prima soluzione, come ha sottolineato qui Massimo Cavino, condurrebbe all’esercizio provvisorio del bilancio. Pertanto, è difficile che il Capo dello Stato impieghi lo strumento previsto dall’art. 74 della Costituzione; e, tuttavia, è altamente probabile che la promulgazione sarà accompagnata, com’è già avvenuto in passato, da una motivazione critica nei confronti delle modalità di approvazione del testo.
Anche per la seconda ipotesi, la strada è in salita. Le più recenti pronunce dell’organo di giustizia costituzionale hanno confermato, infatti, l’orientamento che nega la legittimazione ad agire ai singoli parlamentari per la tutela delle attribuzioni riconosciute dagli articoli 67 e 72 della Costituzione, le quali, invece, spetterebbero, in tesi, all’intera Assemblea (ordinanze n. 163 e n. 281 del 2018). Più agevole è la strada del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, che potrebbe essere percorsa in occasione del primo giudizio comune che s’instaurasse su una norma della legge di bilancio. Certo, al momento, l’orientamento della Corte sul punto è in senso contrario e l’impatto di una pronuncia d’illegittimità costituzionale di tale legge sarebbe dirompente; inoltre, a ciò si deve aggiungere che, nel caso in esame, non sarebbe facile per i giudici di Palazzo della Consulta dichiarare l’incostituzionalità di una legge di bilancio che ha recepito sostanzialmente un accordo raggiunto con la Commissione europea, nella consapevolezza delle conseguenze che tale decisione avrebbe sia sul piano nazionale sia su quello sovranazionale. La Corte, tuttavia, in passato ha fatto prevalere l’esigenza di salvaguardare beni costituzionali di primaria importanza anche in zone ritenute fino a quel momento “franche” rispetto al controllo di legittimità costituzionale, superando consolidati orientamenti relativi alle disposizioni riguardanti i suoi stessi giudizi (il pensiero corre ovviamente alle recenti decisioni sulle leggi elettorali e, in particolare, alle sentenze n. 1 del 2014 e n. 35 del 2017). Non è detto che il Giudice delle leggi non adotti soluzioni analoghe, magari mitigando le conseguenze di eventuali pronunce d’incostituzionalità della legge di bilancio attraverso la modulazione degli effetti delle proprie decisioni, come ha fatto in qualche sua recente sentenza (ad esempio, nella n. 10 del 2015).
Difficile negare, d’altro canto, l’eccezionalità del momento e la gravità degli abusi cui si sta assistendo, a fronte dei quali può trovare giustificazione l’attivazione di tutti i congegni istituzionali volti a garantire la sopravvivenza delle istituzioni democratiche. In tali congegni, secondo l’opinione di una sensibile dottrina, vivrebbe il diritto/dovere alla resistenza nei confronti del potere ingiusto quale principio immanente all’ordinamento repubblicano.