Da anni il dibattito attorno alla prescrizione del reato è assai turbolento, pur con toni variegati. Unico merito del recente emendamento 1.124 al disegno di legge depositato alla Camera dei deputati A.C. 1189 è quello di aver centrato il punto della tormentata questione: radicalmente, l’an stesso della prescrizione.
Si intende modificare l’art. 159 c.p. e sospendere il decorso dei termini prescrizionali dalla pronuncia della sentenza di primo grado o del decreto penale di condanna, fino alla data della esecutività dei provvedimenti che definiscono i relativi giudizi. Si tratta anzitutto di una sospensione fasulla, poiché il termine non potrà ricominciare a decorrere mai, essendo sospeso fino al passaggio in giudicato della sentenza. Siamo di fronte piuttosto alla radicale soppressione della prescrizione a partire dalla pronuncia della sentenza di primo grado o dall’emissione del decreto penale di condanna.
Giunti a questo punto, è evidente che gli addetti ai lavori non possano più esimersi dal tornare ad approfondire (fino anche a rifondare) le ragioni dell’istituto che si mira a ridimensionare, prima di esaminarne le interazioni con il processo penale ed i suoi tempi. Difatti, l’attacco alla prescrizione non sembra oggi guidato dalla critica ai motivi che giustificano la resa del potere punitivo dopo che sia passato un certo tempo dal reato; esso pare piuttosto giustificato dall’insofferenza alla non punibilità quando sopravvenga nel bel mezzo di certe fasi processuali, tipicamente quelle più avanzate. Spreco di risorse, si dice, attività convulsa senza riuscire ad ottenere, benché ci si trovi alle battute finali del processo, alcun accertamento (o alcuna condanna, come direbbe più di qualcuno quando, in preda ad un sospetto lapsus, identifica l’imputato con il reo, remando placido in direzione opposta al flusso del fiume costituzionale).
Ciò fa capire quanto sia invisa, all’attuale Governo, non la prescrizione in sé, che rende non punibile il reato, ma i proscioglimenti per prescrizione, che estromettono l’imputato dal processo con esito diverso dalla condanna.
Ne scaturisce, nella maggior parte dei casi, un discorso viziato, in cui si attacca, con la parola, l’istituto della prescrizione (per taluni reati oggi considerevolmente lunga, nonostante la vulgata), e con il pensiero i tempi del processo. Ovviamente non piace a nessuno che la prescrizione venga dichiarata all’esito del giudizio di appello o, peggio, di quello di cassazione; né sembra desiderabile che, dopo molti anni dalla data della condotta oggetto dell’accusa, si insegua ancora l’accertamento definitivo. Ma ciò non vuol dire che occorra sbarazzarsi della prescrizione, meritevole ancora di essere difesa.
Sono molte le posizioni da considerare: quella di chi ha commesso il reato, che non è l’imputato ma il protagonista necessario del sistema punitivo, di cui la norma penale assume l’esistenza lasciando al processo il compito di identificarlo; va considerata la posizione del soggetto sottoposto al processo, che coincide con il primo solo nell’ipotesi d’accusa, ma che per l’art. 27 comma 2 Cost. − cromosoma necessario al corredo genetico di ogni democrazia − se ne differenzia strutturalmente, dovendosi presumere innocente; va considerato il potere dello Stato di accertare per poi punire, che non può esplicarsi al massimo delle sue potenzialità ma non può neppure soffrire impedimenti eccessivamente gravosi (un sistema penale che punisce troppo e con troppa disinvoltura è incompatibile con una convivenza democratica tanto quanto un sistema penale che punisca troppo poco o con troppa difficoltà).
Tutti questi piani interagiscono tra loro: congiunti da solide scalinate, però, restano piani distinti (prende questo assunto a perno del suo approccio metodologico S. Silvani, Il giudizio del tempo, Il Mulino, 2009, p. 294 e 397). Di conseguenza, prima di trarre conclusioni affrettate, mescolando tra loro questioni assai diverse, bisognerebbe soffermarsi a considerare entro quali limiti la Costituzione repubblicana consenta di intaccare l’istituto della prescrizione nell’ottica di ricavare risultati efficientistici sul piano della amministrazione dei processi.
Consideriamo la posizione del reo, ossia quel soggetto privo di identità nella norma penale e che il processo mira ad identificare. La prescrizione serve a lui, serve al reo, ossia al soggetto agente della norma incriminatrice, del tutto a prescindere dal fatto che si trovi a rivestire il ruolo di imputato. La prescrizione serve a lui per ragioni molteplici e profonde, tutte radicate nelle norme costituzionali di riferimento, ma che si possono racchiudere in un concetto semplice: lo Stato non può punire a piacimento, quando abbia in considerazione i diritti umani dell’individuo, specialmente di quello che abbia commesso un reato. Si tratta di una conclusione che viene dalle posizioni che la Costituzione garantisce all’individuo quando entri in contatto con la materia penale (il diritto di difesa, la presunzione di innocenza, la funzione rieducativa della pena), ma anche da quelle che nulla hanno a che fare con la materia penale e che assicurano alla persona uno svolgimento della vita all’insegna della libertà e della autodeterminazione (diritto alla salute, al lavoro, alla famiglia, posizioni soggettive in ordine all’iniziativa economica, F. Giunta-D. Micheletti, Tempori cedere, Giappichelli, 2003, p. 45-47). Insomma, pur potendo molto approfondire, basta qui rilevare che lo Stato, detentore del potere di punire in un contesto democratico, deve esercitare tale potere subendo le limitazioni funzionali a non scalfire la vita dell’individuo al di là di quanto il sistema penale prevede con la sanzione che dovesse essere legittimamente irrogata (si ricava da D. Negri. Il dito della irretroattività sfavorevole e la luna della garanzia giurisdizionale: la posta in gioco dopo la sentenza Corte di Giustizia UE, Taricco, in Arch. Pen., 2016, p. 645 come l’assenza di prescrizione scardini ogni punto fermo della vita tanto del reo, quanto dell’imputato). Se la prescrizione termina, per sempre, con la sentenza di primo grado (o in altre ricostruzioni ipotizzate con l’esercizio dell’azione penale), da quel momento in poi è attribuita allo Stato la possibilità di punire a piacimento, quando più ne abbia voglia. Questo aspetto sfugge spesso perché i tempi della prescrizione e quelli dell’accertamento sono visti quasi come fossero gemelli siamesi; da qui, la certezza che, pur senza la prescrizione, l’accertamento si concluderà non appena i magistrati saranno in grado di celebrare quel processo, e nulla altro condizionerà i suoi tempi se non gli assetti o le difficoltà organizzative o gestionali di un certo Tribunale o una certa Procura. Però, con una soluzione definitiva come quella proposta, è semplicemente data allo Stato la possibilità di condurre l’accertamento ed eventualmente punire quando più gli piaccia, e nulla o nessuno può escludere che i tempi dell’accertamento e della eventuale pena possano essere dettati, oltre che da impacci organizzativi, anche da precise scelte politiche, da istinti vendicativi, da meschine strategie processuali volte a logorare l’imputato, a punirlo con l’attesa del processo o a permettere la consunzione di una prova a discarico sopravvenuta alla decisione di prima istanza. Non potere punitivo, dunque, ma autorità cieca, arbitrio punitivo.
Basta immaginare qualche possibile scenario per capire che un siffatto assetto della prescrizione si pone in termini di conflitto frontale con tutte le posizioni soggettive che la Costituzione assicura alla persona. Può accadere (ed accade in parte già oggi, in verità, benché vigano i limiti prescrizionali) che la sentenza di assoluzione pronunciata in primo grado venga impugnata dal pubblico ministero, e che il giudizio di secondo grado verrà celebrato solo dopo molti anni concludendosi con una condanna (e non si tema l’iperbole nell’esemplificare perché qui non c’è più alcun limite di tempo negli intendimenti del Governo). Essa interverrà ad una tale distanza dal fatto di reato e la pena dovrà essere eseguita con tale ritardo da ridurre a zero ogni dimensione umana dell’intervento penale: lo Stato, pur gestendo l’imputazione da tempo, può decidere di sciogliere il giudizio, e limitare la libertà del condannato, quando più gli piaccia senza che sia neppure chiamato a giustificare le ragioni di tali attese.
Gli effetti distorsivi risultano poi amplificati quando si metta da parte la figura del reo e si consideri la posizione dell’imputato. Se dopo l’assoluzione o la condanna di primo grado una seconda assoluzione intervenisse a distanza di molti anni avremmo in ogni caso ottenuto il risultato di aver trasformato il processo in una pena assai durevole – poiché esso rappresenta una condizione in presenza della quale la persona non può autodeterminarsi completamente – espiata da chi, all’esito dell’accertamento, ne esca persino da innocente.
Oppure si consideri questo ulteriore probabile scenario: nell’ottica di impedire la prescrizione certamente avremo un giudizio di primo grado contratto dalle scelte del giudice in ordine all’ammissione della prova richiesta dall’imputato, e fors’anche dal pubblico ministero, perché occorre far presto e indugiare troppo su ogni aspetto dell’accertamento ritarda il momento della decisione. Dunque, nel giudizio di primo grado, quello in cui il diritto alla prova ed il metodo del contraddittorio vivono la massima espansione, saranno forti i motivi che indurranno il giudice ad affrettarsi, approssimare, comportarsi in modo più rigoroso davanti alle richieste probatorie delle parti, frustrare gli spazi riservati all’argomentazione. Un processo convulso che deve, a tutti i costi, terminare prima che il termine della prescrizione spiri. È il momento di dotarsi di senso della realtà: quale giudice accetterà che il giudizio venga reso due giorni dopo dalla consumazione dei termini prescrizionali solo per assumere una testimonianza in più, o permettere un accertamento tecnico più accurato? Per questo motivo, e non senza cadere nel paradosso, è preferibile, se proprio occorre sgretolare la garanzia, una prescrizione che cessi di operare con l’esercizio dell’azione penale: quanto meno si garantirà al giudice del primo grado di poter gestire il dibattimento con calma ed approfondire serenamente ogni tema, lasciando libere le parti di assolvere compiutamente alle rispettive funzioni.
La fine della prescrizione con la sentenza di primo grado permette senza dubbio che intervenga un giudizio sulla responsabilità. Ma attraverso quale tipo di processo? Esaminati questi possibili scenari, basta un test per verificare la compatibilità di tali soluzioni con l’assetto processuale voluto dalla Costituzione. Potremmo mai accettare che un simile trattamento sia riservato ad un imputato che pensiamo innocente? Confido che la risposta unanime sia negativa. Allora l’alternativa è una: dobbiamo respingere con forza una tale virata del sistema penale e processuale; oppure dobbiamo ammettere che non pensiamo all’imputato come ad un innocente, e che possiamo giustificare simili vessazioni contro costui solo perché il processo riguarda in fondo una persona colpevole, e serve a produrre condanne, non accertamenti (avevo già preso in considerazione questo convincimento perverso ma diffuso, anche tra i giuristi, in F. Morelli, Le formule di proscioglimento, Giappichelli, 2014). Non vedo dunque alcuno spazio di compatibilità della proposta qui in discussione con la presunzione costituzionale di innocenza, e con l’identica regola, stabilita dall’art. 6, § 2 C.E.D.U., che vieta di trattare un presunto innocente come fosse colpevole (Corte E.D.U., Grand Chamber, 4 dicembre 2008, appl. n. 30562/04 e 30566/04, S. and Marper vs. United Kingdom). Ciò basta a respingere la proposta difesa dal Governo, anche se non si volesse valutare quanto la possibilità, attribuita all’autorità statale, di punire “a piacimento” ferisca a morte l’intera dimensione personalistica della Carta costituzionale.
Ci si potrà tranquillizzare, sperando che simile greve prescrizione, come preannunciato, sarà affiancata da una “riforma epocale” della giustizia, che contempli tempi processuali scanditi indipendenti dalla prescrizione, intesa come causa di non punibilità. Eppure questa soluzione, proposta con diverse varianti anche in passato (G. Giostra, Il problema della prescrizione penale: aspetti processuali, in Giur. it., 2005, p. 2222; S. Silvani, Il giudizio del tempo, Il Mulino, 2009, p. 395), quanto mai opportuna se davvero si eliminasse la prescrizione, rischia di non riuscire a salvaguardare quelle posizioni soggettive dell’individuo che la Costituzione gli riconosce, quando sia coinvolto nell’iter dell’accertamento penale. Ciò accade perché il tempo in cui viene ristretta la possibilità del giudizio non dipenderebbe più dal reato medesimo, dai tempi e dalla sostanza della condotta ipotizzata, ma da esigenze connesse al percorso processuale. Come si è detto, i tempi della punibilità e i tempi del processo stanno su due piani distinti, certo connessi, ma distinti: hanno ragioni differenti, tutelano garanzie individuali differenti, riguardano esigenze differenti. Possiamo esemplificare: se una Corte d’appello statisticamente fissa i dibattimenti a distanza di quattro anni dall’atto d’impugnazione sarebbe fuori contesto un legislatore che le imponga di decidere entro un anno. Quindi la legge stabilirà che il secondo grado dovrà esaurirsi entro quattro anni. Questo tempo è proporzionato all’andamento organizzativo e gestionale delle Corti d’Appello ma potrebbe essere del tutto sproporzionato rispetto ad un’attesa, erosiva delle possibilità di vita, che si consuma fin dal momento in cui la condotta è stata posta in essere. Imporre un tempo al processo non ha nulla a che vedere con le posizioni soggettive di rango costituzionale che la prescrizione tutela. Se una “prescrizione processuale”, sganciata dal tempo del reato, si trova a fungere da limite temporale alla punizione è solo per motivi contingenti, che non sono riproducibili in una norma generale ed astratta. Semplificando: è proporzionato rispetto a tutte le esigenze in gioco un tempo X destinato alla celebrazione del processo di secondo grado e di quello di cassazione? Dipende. Banalmente, dipende da quanto tempo sia trascorso non dalla sentenza di primo grado, ma dalla commissione del reato. Quindi, a fronte della medesima norma, in taluni casi il tempo massimo per la conclusione del processo sarà adeguato, in altri meno.
Affinché il tempo dell’oblio assolva alle sue funzioni, oggetto di pretese costituzionali, deve essere collocato in un assetto normativo che identifichi espressamente il dies a quo con il tempo del reato (meglio ancora, della condotta). Se il legislatore deciderà di fissare i tempi del processo per compensare la scomparsa della prescrizione dopo il primo grado non potrà che assumere come riferimento un istante che prescinde dalla commissione del reato e ciò rende davvero incerto il prodursi dello sperato effetto compensativo.
Dunque, Costituzione alla mano, non sembra automatico che si possa rinunciare alla prescrizione una volta fissate scadenze temporali parametrate non al reato ma al percorso processuale.
Del resto, sembra a tutti assurdo che un soggetto venga condannato, ormai sessantenne, per un furto commesso quando aveva vent’anni. Ma indigna tutti che imputati di gravi reati vengano prosciolti per il decorso della prescrizione nel giudizio di appello, di cassazione o di rinvio. Allora il problema non è la prescrizione, ma è la capacità dell’autorità giudiziaria di usare il tempo che le è concesso (di certo non irragionevolmente esiguo) per giungere ad un accertamento definitivo. Prescrizione e tempi del processo sono quindi questioni distinte.
Occorre fare pace con il dato per cui la prescrizione “garantisce l’impunità” (slogan di questi giorni). È così, la prescrizione garantisce l’impunità (nel linguaggio del giurista la “non punibilità”) solo quando, secondo la valutazione della legge, punire è diventato ormai intollerabile e contrario al rispetto della persona; quando, in definitiva, la punizione non è più manifestazione del potere dello Stato di usare la forza per sanzionare i comportamenti incriminati, ma rappresenta l’autorità arbitraria e cieca che annienta l’individuo a proprio piacimento. Certo, perché il discrimine tra la potestà punitiva conforme a Costituzione e l’arbitrio assoluto possa essere segnato con sicurezza, occorre una disciplina della prescrizione che, ben ponderata, non renda ingiustificatamente gravoso per l’autorità statale il compito di irrogare la sanzione quando venga affermata con provvedimento definitivo la responsabilità dell’imputato. Quindi venga pure una riforma della prescrizione, anche radicale, se si sente la voglia di “nuovi valori”, intesi qui nell’accezione preoccupata di Franco Battiato, in Aria di rivoluzione (Sulle Corde di Aries, Blabla, 1973). Ma nessuna nuova soluzione normativa potrà evitare di fissare un limite cronologico massimo alla possibilità di punire che parta dal tempo del reato.
Nella mitologia greca è Crono, dio del tempo, a fermare Urano, che in un ciclo infinito fecondava Gea per poi assassinarne i figli, e lo ferma rendendolo improduttivo, infecondo. Fa parte della storia umana quella dinamica, inesorabile, per cui il tempo è destinato a fermare, rendendole improduttive, le azioni di quell’autorità che pretenda di affermarsi senza limiti. L’autorità accettabile, quindi, è quella che subisce gli effetti del tempo.