Nella giornata di ieri è stato pubblicato il Comunicato che dà conto della decisione della Corte costituzionale sulla legittimità dell’art. 580 cod. pen., ovverosia sulla conformità a Costituzione della disciplina che riguarda l’aiuto al suicidio (la vicenda, per intenderci, è quella di Marco Cappato): “Nella camera di consiglio di oggi, la Corte costituzionale ha rilevato che l’attuale assetto normativo concernente il fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti. Per consentire in primo luogo al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina, la Corte ha deciso di rinviare la trattazione della questione di costituzionalità dell’articolo 580 codice penale all’udienza del 24 settembre 2019”.
Non conosciamo – perché ancora non pubblicate – le argomentazioni giuridiche che hanno portato la nostra Corte costituzionale a decidere con una ordinanza che non ha precedenti nella storia della giustizia costituzionale del nostro Paese. Che la decisione fosse difficile, lo si era già sottolineato, ma nessuno poteva prevedere questo dispositivo, che ricorda molto quello della Corte Suprema canadese che si è pronunciata nel 2015 su una questione simile a quella che qui ci interessa. La Supreme Court ha in quel caso rinviato di un anno gli effetti della decisione di incostituzionalità della norma sull’aiuto al suicidio per dare tempo al Parlamento di esercitare la sua discrezionalità; oggi, invece, la Corte costituzionale italiana non si è pronunciata con alcuna decisione di fondatezza, e questo anche perché ad essa non è (non sarebbe) riconosciuta la possibilità di modulare nel tempo gli effetti delle sue decisioni.
L’incostituzionalità non è stata dichiarata, ma al Parlamento è stata inviata una sorta di monito, di avviso, anzi una vera e propria anticipazione di dichiarazione certa di incostituzionalità (accertata ma non dichiarata con rinvio di trattazione): “l’attuale assetto normativo concernente il fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione”.
In un tempo di radicale ‘rifondazione’ antropologica dell’individuo a causa del sapere tecnico-scientifico che tutto pervade, un dibattito aperto sull’aiuto al suicidio – ma lo stesso a questo punto credo possa valere per l’omicidio del consenziente – non solo è auspicato, ma doveroso.
Ed infatti, ora bisogna porsi con forza la domanda se l’evoluzione della società, la sua secolarizzazione, la sua multiculturalità non siano processi a fronte dei quali è necessario ripensare al bilanciamento operato dal legislatore italiano fra qualità della vita e sacralità della stessa; un bilanciamento (per niente laico) che finora ha sacrificato in toto la pretesa, rivendicata da molti, di poter decidere in modo autonomo in che modo e in quale momento la propria vita debba terminare. Questa ridiscussione deve essere affrontata anche perché la domanda eutanasica (in generale) è ‘regolata’ dal vivere nell’età della tecnica che ha completamente eclissato lo scenario in cui erano scritti gli articoli del codice penale in subiecta materia. Negli anni ’30 del secolo scorso – oltre al fatto che si era in un’altra forma di Stato che funzionalizzava l’uomo rifiutando il principio personalista –, infatti, le questioni di cui la Corte è stata chiamata a discutere semplicemente non esistevano: il bene tutelato dal codice penale, in effetti, è solo la vita e non anche, come invece dovrebbe essere, l’autodeterminazione della persona.
È ora che anche le aule parlamentari incomincino a porsi una tale domanda e, soprattutto, a dare una risposta.
Aprire alle pratiche eutanasiche significa non avallare una richiesta di morte tout court – come inopinatamente molto spesso si afferma –, ma dar seguito ad una richiesta di morte dignitosa, limitata e rigidamente circoscritta da presupposti fissati legislativamente; che si tratti di ipotesi di omicidio del consenziente o di aiuto al suicidio può anche non rilevare.
Si parla di limiti perché essi sono consustanziali alla stessa definizione che si dà del termine eutanasia (che non abbisogna di alcuna aggettivazione), potendosi riassumere il nucleo essenziale di tale pratica come la richiesta cosciente e libera da parte di un soggetto malato di porre fine alla propria vita; espressione del principio personalista e della libera autodeterminazione del soggetto richiedente; raggiungimento di uno stato di malattia talmente grave da essere definito come irreversibile e che comporta che il vivere non sia più accettabile dalla persona richiedente la pratica eutanasica.
Dalla vicenda drammatica che ha portato al suicidio di Dj Fabo capiamo che la politica non può più deresponsabilizzarsi, e deve decidere di decidere, non potendo (sempre) il potere giudiziario (in questo caso la Corte costituzionale) supplire (pensiamo anche al caso Englaro, seppur significativamente differente da quello di Dj Fabo) alle mancanze di una politica che si limita a ‘trattare’ a mo’ di slogan divisivi (anche) il tema dell’eutanasia e solo all’indomani di casi tragici che continuano (e continueranno) a porsi perché privi di una risposta soddisfacente, diremmo ragionevole.
Fino ad oggi, la mancanza o l’inadeguatezza della legislazione è stata rilevata solo in caso di eclatanti fatti di cronaca che esigono risposte urgenti, il cui interesse, però, scema progressivamente per essere accantonato e sostituito da uno più attuale, o giudicato tale, per altre vicissitudini quotidiane di cui la politica decide di occuparsi. Ecco, ora il tema è posto! E non si potrà più rinviare.
Non si potrà attendere tanti anni come, ad esempio, è accaduto per la legge sulle disposizioni anticipate di trattamento (DAT), che, detto per inciso, non prende in considerazione la fattispecie dell’aiuto al suicidio, trattando esse di rifiuto delle cure, e non solo di quelle salva vita.
Se si continuerà nell’immobilismo siamo certi che la Corte avrà seri argomenti per poter certamente decidere. Il rischio è quello che la maggioranza parlamentare si trinceri dietro il facile alibi che ciò che non è nel contratto non è oggetto di discussione politica. Bene, ricordiamo però due cose: nel Governo del Paese siedono forze che richiamano mai stancamente la centralità del Parlamento (e lì le possibili maggioranze su un singolo testo legislativo possono essere le più diverse) e che spingono verso la democrazia diretta (ed è da cinque anni che parte del corpo elettorale ha depositato un testo di legge sull’eutanasia).
Se nulla cambierà, di certo l’anno prossimo l’Avvocatura dello Stato non potrà più argomentare circa l’inammissibilità della questione affermando che non rientra nella competenza del giudice costituzionale sindacare la materia penale dell’aiuto al suicidio, costituendo essa oggetto su cui deve esercitarsi la discrezionalità che è propria del Legislatore.