La vicenda delle minacce rivolte da Rocco Casalino ai funzionari del Mef, contenute in un messaggio audio inviato ad alcuni giornalisti è ormai nota in tutti i suoi particolari di cronaca. Inoltre su questo giornale sono stati pubblicati già due articoli, uno specifico sulla vicenda di Giacomo Menegus, ed uno in materia di spoils system e ruolo della Ragioneria Generale dello stato, di Giovanni Di Cosimo, ampiamente esaustivi.
Eppure c’è un aspetto che meriterebbe ancora di essere trattato, che non riguarda più il fatto in sé, bensì gli strumenti che le forze politiche che hanno criticato le parole di Rocco Casalino hanno utilizzato per dare sostanza alla loro iniziativa censoria.
Rocco Casalino, come riportato sul sito internet della Presidenza del Consiglio, è il Capo ufficio stampa e Portavoce del Presidente del Consiglio dei Ministri. Dunque oltre a svolgere un incarico pubblico, sempre a quanto recita il sito della Presidenza del Consiglio è il responsabile dell’informazione inerente l’attività del Presidente del Consiglio e i collegamenti con gli organi di informazione nazionali e stranieri.
Da ciò si può ben ritenere che gli atti posti in essere da Rocco Casalino nella sua qualità di Capo ufficio stampa e Portavoce investano inevitabilmente il Presidente del Consiglio, che per ricorrere ad un espressione giuridica dovrebbe essere il suo “dante causa”.
A fronte di quanto accaduto sarebbe stato lecito e opportuno aspettarsi dalle forze politiche che sono all’opposizione di questo governo un atto formale in Parlamento. Nel caso di specie lo strumento più adeguato sarebbe stato la presentazione di un atto di sindacato ispettivo, oppure, in subordine, la richiesta formalizzata in una delle due aule al Presidente del consiglio di venire a riferire sulla vicenda.
Ciò non si è verificato da parte di Forza Italia e Fratelli d’Italia, ma non si è verificato neppure da parte di Leu e, soprattutto, da parte del Pd che è il partito che ha più criticato la vicenda con dichiarazioni pubbliche.
Negli allegati b ai resoconti delle sedute del 25 settembre (la prima in cui potevano essere pubblicati nuovi atti di indirizzo dal 22 settembre, giorno in cui è stata data notizia della vicenda) e del 26 settembre di Camera e Senato non risulta un solo atto sulla questione.
Alla Camera, ad esempio, si sarebbe potuta depositare un’interpellanza urgente che avrebbe imposto la risposta del governo nella seduta del venerdì successivo, oppure sia alla Camera che al Senato si sarebbe potuta utilizzare la seduta dedicata ai question time.
Il presidente del Consiglio non era ovviamente tra i membri del governo che avevano dato disponibilità a rispondere ad eventuali question time, ma c’è una prassi almeno alla Camera, che consente ai gruppi parlamentari di presentare interrogazioni a risposta immediata “fuori sacco” alle quali viene a rispondere, in assenza del destinatario dell’interrogazione, il Ministro dei rapporti con il Parlamento.
Il Pd in questi giorni ha depositato un’interrogazione sul decreto-legge su Genova, disperso, tra Palazzo Chigi e il Mef (Interrogazione 3-00189 Di Giorgi), in aula alla Camera, nella seduta del 25 settembre: con il proprio delegato d’aula, on. Fiano, ha chiesto formalmente al governo di riferire in merito alle polemiche emerse sui problemi inerenti la bollinatura del medesimo decreto. In commissione lavoro sempre alla Camera, deputati di Leu e del Pd hanno messo a verbale la loro condanna per le accuse rivolte dal vice premier Di Maio a Renzi, definito assassino politico per il jobs act. Ma sulle parole del Portavoce del Presidente del Consiglio nulla.
Non si tratta di mero formalismo, come è assodato che un atto di sindacato ispettivo non avrebbe cambiato le sorti del governo né quelle dell’opposizione.
Ciò detto, però, la presentazione di un atto formale avrebbe consentito di “parlamentarizzare” la vicenda, portarla su un terreno ufficiale e istituzionale in cui il governo sarebbe stato costretto a mettere agli atti, sempre ufficiali, la sua versione, ed in particolare se il comportamento tenuto dal portavoce del Presidente del consiglio è compatibile con quell’incarico e se il Presidente del consiglio fosse al corrente e condividesse l’iniziativa del suo portavoce.
Senza questa parlamentarizzazione, il caso rimane consegnato ai giornali e ai social, terreno dove una menzogna retwittata cento volte non diventa, ma è già verità: terreno, soprattutto, dove le opposizioni, ed in particolare il Pd, se la passa molto peggio che nelle aule parlamentari.