Preannunciato e spettacolarizzato, è stato, infine, approvato in data 14 settembre il testo, “non blindato” del decreto-legge recante modifica alla disciplina sull’immigrazione, la protezione internazionale e la concessione e revoca della cittadinanza italiana, in cui si condensa, tra le altre cose, la strategia salviniana in materia di sistema di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale e dei rifugiati. Si tratta, e non solo a parer mio, di una strategia che, senza enfasi, mira scientificamente a svuotare di ogni contenuto un sistema di accoglienza, quello pubblico in capo al Sistema SPRAR, che faticosamente si è fatto strada specie nell’ultimo decennio. Un modello, quello della accoglienza integrata, davvero unico nel panorama comparato e che, agli occhi del costituzionalista, si presenta assai ricco di suggestioni. Non fosse altro perché tali sperimentazioni di accoglienza integrata a livello locale e nell’ottica di uno sviluppo sostenibile atto a contrastare lo spopolamento e a rinvigorire la fruibilità dei servizi tanto per gli autoctoni che per i nuovi arrivati paiono inscriversi nel paradigma solidaristico che resta uno dei cardini della Costituzione repubblicana e di cui si è fatto largo uso anche nel Trattato di Lisbona che accorda alla solidarietà lo statuto di «valore universale, accanto a dignità umana, libertà, uguaglianza».
Uno dei tratti salienti del sistema SPRAR, almeno fino a ieri, è stata l’inclusione nei progetti di accoglienza anche (e forse soprattutto) dei richiedenti protezione internazionale, nelle more della conclusione del procedimento innanzi alle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale (ed eventualmente all’autorità giudiziaria in fase di ricorso). Come è facilmente intuibile, è proprio in questa delicatissima fase che la figura dell’operatore legale, al pari degli altri componenti dell’equipe multidisciplinare, opera accompagnando e preparando i richiedenti protezione internazionale per l’audizione innanzi alla Commissione territoriale. Si tratta di un momento, quell’audizione, che ogni richiedente protezione internazionale vive con motivata emotività e ansia, dipendendo dalla qualità di essa la possibilità o meno di vedersi riconosciuta una delle forme di protezione internazionale.
Nel testo del decreto-legge, invece, proprio la categoria variegata e certamente estremamente vulnerabile dei richiedenti (si pensi solo alle vittime di tortura e di tratta o dalle persone con problemi di salute mentale) viene esclusa da ogni possibilità di fruire dell’accoglienza integrata in uno dei progetti della rete SPRAR. Solo chi è già titolare di protezione internazionale e i minori stranieri non accompagnati potrà fruire dell’accoglienza “pubblica” e per tutti gli altri si spalancano le porte dei discutibilissimi Centri di Accoglienza Straordinaria, attivati dai Prefetti, spesso senza neanche le gare di evidenza pubblica, senza nessun coinvolgimento degli enti locali nel cui territorio insistono, senza nessuna garanzia in ordine alla professionalità dell’ente attuatore. Una scelta, mi si lasci passare il termine, davvero scellerata anche per le modalità con cui sono state deliberatamente ignorate le posizioni assai critiche dell’Anci, giustamente in allarme per le prevedibili ricadute che una maggiore concentrazione di stranieri, senza adeguato “sostegno”, avrà sui territori, ipotecando pesantemente ogni possibile declinazione di integrazione (sociale, abitativa, lavorativa).
Vero è che nel decreto-legge, del quale qui richiameremo solo alcuni dei profili macroscopicamente più discutibili, si prefigura un sensibile ridimensionamento del numero dei titolari di protezione internazionale per il tramite della sostanziale abrogazione di una delle forme “nazionali” in cui la protezione internazionale stessa si scompone (e ora decompone): la c.d. protezione umanitaria ed il correlato permesso di soggiorno per motivi umanitari. Semplificando oltremodo una problematica su cui la migliore dottrina è tornata di recente ad interrogarsi, qui possiamo solo ricordare come tale permesso di soggiorno, introdotto dall’art. 5, comma 6, del decreto legislativo n. 286/1998, può essere rilasciato quando non ricorrano i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o la protezione sussidiaria (istituti di matrice internazionale e unionale), ma si rilevino seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. Pur se in un contesto di repentini mutamenti giurisprudenziali che hanno finito per sovrapporre (e annacquare) i profili sostanziali, procedimentali e giurisdizionali del diritto di asilo costituzionale con le altre forme di protezione politico-umanitaria, la natura residuale e a carattere aperto del permesso umanitario ha propiziato la sua inclusione tra le misure attuative proprio del diritto di asilo costituzionale. In altri termini, il più recente orientamento della Corte di Cassazione è di ritenere che, oggi, il diritto di asilo costituzionale sia “interamente attuato e regolato, attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti di protezione” (Cassazione, sez. VI, ord. n. 10686/2012), e, cioè, lo status di rifugiato, la protezione sussidiaria e la protezione umanitaria. Tralasciando ogni considerazione in ordine a quella che è stata giustamente ritenuta come una dispersione del diritto di asilo costituzionale all’interno di una meno garantistica costellazione di forme internazionali di protezione e la preclusione di ogni recupero sostantivo di tale istituto, resta che alla protezione umanitaria sia da riconoscere una funzione realmente propulsiva del lungo e difficile percorso di attuazione dell’art. 10, comma 3, Cost. E, dunque, non possono che sorgere più che fondati dubbi sulla conformità a Costituzione dell’abrogazione (sostanzialmente piena) di un istituto direttamente attuativo del diritto di asilo costituzionale.
Le perplessità che la lettura del decreto immigrazione suscita non si fermano a questi primi due rilievi già di per se stessi sufficienti a ritenerlo sì un passo in avanti ma solo verso il misconoscimento totale dei più elementari diritti della persona del migrante, sia esso politico che “economico”. I tempi del trattenimento amministrativo del migrante in condizione di irregolarità tornano, infatti, a riespandersi fino ad un massimo di 180 giorni, diremmo quasi in spregio di una letteratura unanimemente concorde nel ritenerla misura inutile, inefficace ed inefficiente, dispendiosa e lesiva della riserva assoluta di legge, quanto ai casi e ai modi, che l’art. 13 Cost. predispone a tutela della libertà personale. Si aggiunge, peraltro, la previsione secondo la quale, in caso di indisponibilità nei Centri di permanenza per il rimpatrio (gli ex Cie, per intenderci), il giudice di pace possa autorizzare il trattenimento temporaneo dello straniero in “locali idonei” nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza. Si prevedono poi nuove ipotesi di trattenimento “automatiche” per i richiedenti protezione internazionale, senza però definire per legge le ipotesi tassative in cui la misura può essere disposta dall’autorità di pubblica sicurezza; l’impossibilità per gli stessi di godere del gratuito patrocinio per talune tipologie di ricorso, l’ampliamento dei reati che giustificano la revoca del permesso di soggiorno per protezione internazionale, la possibilità di revocare la cittadinanza per il reato di terrorismo, la possibilità della sospensione della domanda di asilo a seguito di condanna solo di primo grado (in palese violazione dell’art. 27 Cost.) .
In conclusione, non c’è nulla in questo decreto-legge (sulla cui necessità ed urgenza sorvoliamo per amor di patria) che affronti la farraginosa normativa italiana in materia di incontro tra domanda e offerta di lavoro. Quest’ultima prevede, infatti, un meccanismo per cui lo straniero, intenzionato ad ottenere un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, è tenuto a rimanere nel Paese di origine fino alla conclusione della lunga procedura di ingresso. In altre parole, non è ammissibile la domanda per chi già si trovi sul territorio italiano e questo, come si è opportunamente notato, contrasta con il fatto che la tipica procedura di assunzione si basa sul meccanismo della chiamata nominativa che presuppone una conoscenza diretta tra il datore di lavoro e lo straniero che, però, appunto deve necessariamente trovarsi all’estero.
L’inefficacia di un sistema basato su due circuiti diversi e tra loro non comunicanti (quello attinente alla regolarità dell’ingresso e del soggiorno e quello riguardante l’irregolarità, conseguente all’aver varcato illegalmente la frontiera o il non rinnovo del permesso di soggiorno) e l’impossibilità di sanare la condizione di irregolarità una volta raggiunto il territorio nazionale (o avervi irregolarmente sostato), oltre a costituire un serio ostacolo ai processi di integrazione, aumenta la precarietà dei lavoratori irregolarmente presenti e incoraggia lo sfruttamento lavorativo specie nelle aree del Paese (e cioè nelle regioni del Mezzogiorno) dove più estese, se non endemiche, sono le prassi della illegalità e del mercato nero del lavoro. Di più, tutto lascia pensare che se il decreto Salvini non dovesse essere “interamente” rivisitato in fase di conversione, aumenterebbe esponenzialmente l’area della irregolarità e della marginalità. Quanto questo sia un effetto prefigurato strategicamente al solo fine di capitalizzare ulteriori consensi al leader della Lega non è dato sapere, ma certamente il dubbio ci assale.