Il decreto sicurezza approvato ieri dal Consiglio dei Ministri su iniziativa del Ministro dell’Interno Salvini punta molto sul controllo poliziesco dell’immigrazione al fine di ottenere, appunto, l’obiettivo enunciato in rubrica: maggiore sicurezza per i cittadini. Si tratta di una strategia politica non nuova né di pertinenza esclusiva delle forze politiche (un tempo chiamate) “di destra”. Una strategia chiaramente destinata ad assumere funzione compensativa: tanto più viene sottratto dallo Stato ai budget di Regioni e Comuni per svolgere funzioni di integrazione e/o di lotta al degrado urbano, tanto più si punta a rassicurare le popolazioni residenti attraverso politiche di ordine pubblico (apparentemente) a costo zero.
È di pochi giorni fa, del resto, la decisione del Governo di fare cassa congelando fino al 2020 i finanziamenti dei programmi già avviati da moltissimi Comuni italiani per la riqualificazione delle periferie urbane.
La sicurezza sociale, che un tempo passava anche e soprattutto attraverso prestazioni di welfare pubblico e programmi di investimento infrastrutturale, viene ormai da tempo surrogata con misure di polizia e/o di inasprimento sanzionatorio nei confronti dell’immigrazione irregolare.
Quando poi si prospettano misure redistributive, quali il famoso reddito di cittadinanza, la prima esigenza comunicativa della forza politica che le propone è quella di rassicurare che si tratta di misure rivolte ai soli cittadini italiani. (Del resto, il bonus bebé del Governo Berlusconi nel 2005 era anch’esso precluso ai cittadini extracomunitari).
La privatizzazione del welfare è un moto che risale ormai almeno agli anni novanta del secolo scorso: dietro a plausibili istanze di efficienza dei servizi, si celavano e si celano esigenze del capitale di aumentare l’ampiezza della torta per poterne trarre fette più ampie a proprio favore. Si è trattato, in qualche modo, della via “europea” al recupero di redditività del capitale: il programma di privatizzazione dei servizi pubblici tuttora in corso serviva (e serve) proprio ad ampliare, in situazione di stagnazione della domanda, le capacità “estrattive” del capitale (Barba, Pivetti, 2016). Il problema è che questo moto di privatizzazione del welfare non sembra in grado di compensare la funzione integratrice che l’intervento pubblico era (e ancora in parte è) in grado di svolgere rispetto alla società: coloro che non sono in grado di comprarsi il welfare privato, sfogano la loro insicurezza votando per forze politiche “populiste”, tra le cui strategie di maggior successo campeggia quella del nazionalismo e della ricerca del capro espiatorio. Ecco che il cosmopolitismo delle élite economico-finanziarie che hanno per anni orientato le élite politiche europee si infrange nel suo esatto contrario, ossia nel fantasma del nazionalismo che esso stesso non si era curato di prevenire. La strategia neoliberista della responsabilizzazione del lavoratore-imprenditore di se stesso, che imputa soltanto a quest’ultimo i suoi fallimenti nel mercato del lavoro, incontra dei limiti strutturali: essa non può estendersi a tutti, né può giungere fino all’estrema sanzione sociale del totale abbandono, né, infine, può risolvere tutto con l’offerta di mobilità transnazionale del lavoro. Certo, alcuni individui in grado di farlo preferiranno l’emigrazione alla protesta, ma prima o poi l’insicurezza che da ciò deriva, da individuale torna a farsi collettiva, con tutto ciò che ne consegue in termini di irrazionalità di massa e di bisogno del capro espiatorio.
Se si condivide quanto detto fin qui, si comprende anche perché l’emigrazione economica abbia smesso di funzionare come meccanismo compensativo tra Stati. Nell’impostazione datane da Hirschmann nel 1970, l’emigrazione nell’ottocento e ai primi del novecento ebbe effetti positivi sia per i Paesi che venivano abbandonati che per quelli di destinazione. Per i primi, si trattava di una valvola di sfogo per i governanti, posto che era assai probabile che i ribelli e gli scontenti emigrassero anziché protestare conto il proprio governo (exit al posto di voice, nel notissimo schema di Hirschmann). Il che è probabilmente ancora vero per molti degli attuali Paesi di emigrazione (che, difatti, si rifiutano di collaborare con i governi europei nella gestione dei rimpatri). Nei Paesi accoglienza (come gli Stati Uniti o l’Argentina rispetto all’emigrazione di socialisti e anarchici italiani nei primi del novecento), gli immigrati tendevano a inserirsi in sordina nella nuova società. Quest’ultimo dato, evidentemente, non è più vero: non solo origine etnica e pratiche culturali tendono a non rendere “discreta” un certo tipo di immigrazione, ma anche la politica economico-fiscale degli Stati di accoglienza rema contro l’integrazione. La domanda di lavoro (regolare) stagna e l’intervento pubblico non può compensare le carenze di domanda privata per i noti vincoli di bilancio. Disoccupati “regolari” (i cittadini abbandonati a se stessi nel mercato del lavoro) e disoccupati “irregolari” si fronteggiano sempre più minacciosamente, in una critica fase di passaggio da un welfare pubblico a uno privato dalle incerte capacità di coesione sociale.
* Associato in Diritto costituzionale, Università degli studi di Ferrara