La storia di Europa è stata segnata da una conquista della cultura liberale, la prevalenza del diritto sulla politica. La ‘politica’ è un termine un po’ astratto per definire il potere, e la storia di Europa è stata segnata dal tentativo di porre il potere sotto controllo, imbrigliarlo nelle regole e nei limiti della costituzione e delle leggi. Quando si parla di Stato di diritto o di Stato costituzionale è a questa conquista che si fa riferimento.
Sembravano conquiste irrevocabili. L’avvento del suffragio universale aveva portato il traguardo un po’ più avanti, perché anche il conflitto sociale era stato trasportato dalle piazze dentro alle istituzioni, dalla lotta insurrezionale con relativa repressione militare al dibattito parlamentare e alla discussione delle leggi: la Costituzione si riempiva dei principi e dei valori che venivano issati dalle forze sociali contrapposte, lasciando al gioco democratico – elezioni, maggioranza, legge – di scegliere quale punto di mediazione preferito, e a un giudice un po’ particolare (la Corte costituzionale) il compito di vigilare che chi occupava temporaneamente il potere non se ne approfittasse annichilendo i principi e valori di chi le elezioni democratiche le avesse perse. Democrazia sì, ma la democrazia è una forma di esercizio del potere e perciò doveva pur sempre stare al guinzaglio, non superare i limiti fissati dalla Costituzione né derogare alle forme e alle procedure da questa disciplinate. Chi vince le elezioni non può fare tutto quello che vuole.
Perché ne parlo al passato? Perché intravvedo sintomi di una pericolosa involuzione, e non solo in Italia. Quando Orbàn si permette di proporre come modello, non per la “sua” sola Ungheria, ma per l’Europa tutta, quello di una “democrazia illiberale”, indicando Russia, Cina e Turchia come esempi a cui guardare, sento gelo nella schiena. «Dobbiamo abbandonare i metodi e i princìpi liberali nell’organizzazione di una società… Stiamo costruendo uno stato volutamente illiberale, uno stato non liberale». Orbàn e i suoi non sono schegge impazzite del sistema politico, fanno parte del Partito popolare europeo assieme a Angela Merkl e Berlusconi. E ci sono esponenti dei partner tedeschi di quel partito (CDU e CSU) che danno segno della stessa perversa inclinazione. Herbert Reul, ministro del Land Nord Reno-Vestfalia ed ex parlamentare CDU, si è permesso nei giorni scorsi di disattendere un ordine del giudice, che sospendeva la deportazione in Tunisia di un predicatore salafita di Bochum: la giustificazione è rabbrividente, la legge richiamata dal giudice era contraria al “sentimento popolare”, e se un giudice non lo capisce le sue decisioni devono essere superate da chi rappresenta il popolo.
D’accordo, si trattava di un tipo sospettato di essere una guardia del corpo di Osama Bin Laden: ma può il “sentimento popolare” – e il politico che se ne erge ad interprete – prevalere sulla legge e le sue garanzie? Sì, sostenevano Hitler e i suoi giuristi: «oggi la volontà e i piani del Führer sono legge», è l’indirizzo politico che deve guidare il giudice, scriveva senza arrossire Carl Schmitt nel 1935. È un concetto che oggi ripetono senza arrossire i nostri politici. Inconsapevolmente, forse.
Il “caso Diciotti” è emblematico. La sorte di 177 migranti è stata decisa tramite tweet e telefonate, nell’assoluta non curanza delle leggi e delle garanzie costituzionali vigenti e nel totale disprezzo per i giudici che pensano di farle valere: «Mi spiace c’è qualche giudice che ha tempo di interrogare funzionari pubblici: vengano direttamente da me, mi sembra meschino prendersela con dei funzionari quando c’è un ministro e un vicepresidente del consiglio che si prende la responsabilità di dire No», ha dichiarato Salvini. Lui ha il consenso popolare, e i suoi seguaci ne spiegano il peso ai magistrati: «Se toccate il capitano vi veniamo a prendere sotto casa» (così l’on. Giuseppe Bellachioma su Facebook). E che dire della minaccia all’Unione europea di sospendere i versamenti a cui siamo tenuti da un Trattato internazionale, debitamente ratificato e eseguito dalla legge della Repubblica italiana?
Quasi dieci anni fa Gianpietro Mazzoleni e Anna Sfardini lanciavano il termine politica pop (Politica Pop. Da “Porta a Porta” a “L’isola dei famosi”, Il Mulino 2009). Oggi vediamo dove la politica pop ci sta portando, e come sia capace di costruire consenso. Ha dichiarato Camilleri in una intervista a Repubblica (riportata da Il Giornale) che «intorno alle posizioni estremiste di Salvini avverto lo stesso consenso che a dodici anni, nel 1937, sentivo intorno a Mussolini». Che sia l’agghiacciante conseguenza di una scuola in cui si studia di tutto ma non l’educazione civica?
Sono sostanzialmente d’accordo che assistiamo a una deriva “pop” che giustifica qualsiasi decisione con il consenso popolare espresso attraverso il voto, i sondaggi, la piazza. Questa deriva non è però iniziata con il risultato delle ultime elezioni bensì a partire del nuovo millennio con un’interpretazione diversa del gioco istituzionale espressa nel gergo politico, nei progetti di revisione costituzionale e nelle numerose leggi elettorali. Il costituzionalismo, come gli studiosi ci insegnano, poggia su paradossi, dilemmi irrisolvibili, contraddizioni, la decisione (a maggioranza) o il diritto (calato dal cielo), rex facit legem o lex facit regem? Confidare nelle virtù del diritto prodotto dalla Corte è parziale quanto l’ideologia populista. Lo capiremo quando l’attuale maggioranza avrà nominato i suoi giudici e eventualmente eletto un suo presidente. Il diritto non è né l’uno (proprietà della maggioranza autocertificata) né l’altro (riserva dei costituzionalisti), ma dialettica, nel senso di Hegel e in quello di Socrate, quindi dibattito aperto, ricerca razionale, un compito da Sisifo.