Nel dare conto della complessa vicenda Taricco, e della sua ultima tappa nel momento in cui si scriveva (2017), si era sottolineata la «mano tesa» posta dalla Corte di giustizia alla Corte costituzionale: il giudice del Lussemburgo, seriamente sollecitato dall’ordinanza della Consulta, aveva precisato che il diritto UE non imponeva al giudice nazionale di ‘non-applicare’ la disciplina interna sulla prescrizione al fine di dare prevalenza agli interessi finanziari dell’Unione (come sembrava, a dire il vero, assai chiaramente dalla prima pronuncia della Corte del Lussemburgo); spiegava difatti la Corte di giustizia che era lo stesso diritto UE (le ‘tradizioni costituzionali comuni’ consacrate nell’art. 6.3 TUE, la Carta di Nizza all’art. 49) a tutelare il diritto fondamentale di difesa dell’imputato, dovendo quest’ultimo senz’altro prevalere innanzi ad altri interessi non comparabili per importanza e ‘valore’ costituzionale (tra i quali, appunto, la tutela degli interessi finanziari UE, cristallizzati nell’art. 325 TFUE).
Questa precisazione, o per meglio dire questo netto ripensamento rispetto alla prima pronuncia, sembrava creare le condizioni per impedire ciò che la Corte costituzionale aveva elegantemente ‘minacciato’: l’applicazione dei controlimiti.
Tutto finito, dunque? Non esattamente.
Nella pronuncia della Corte di giustizia sopra ricordata la rassicurante precisazione svelava però un’importante eccezione. Quando la vicenda Taricco sorse, in effetti, non era stata ancora adottata la Direttiva UE 2017/1371, la quale verte – tra le altre cose – proprio in materia di prescrizione, introducendo una disciplina sul tema inevitabilmente più sensibile all’impostazione sposata dalla Corte di giustizia nella prima, contestata, pronuncia.
I giudici europei, dunque, lasciavano intendere che era sì consentito far prevalere i principi supremi nazionali (per meglio dire, i loro ‘equivalenti’ europei), ma solo nei casi sorti prima dell’entrata in vigore di tale Direttiva; al contrario, successivamente ad essa, anche lo Stato italiano avrebbe dovuto uniformarsi al nuovo standard europeo.
La mano era effettivamente «tesa», ma non per questo rinunciava a graffiare.
È qui che interviene l’ultima tappa della tormentata vicenda. La Corte costituzionale ha emesso la propria sentenza (115/2018) di ‘risposta’ alla ‘precisazione’ operata dal giudice del Lussemburgo: per i motivi accennati all’inizio, non vi è stato alcun bisogno di applicare i controlimiti. Ma nella stessa pronuncia, un passaggio della Corte sembra rispondere con tono perentorio – e negativo – all’‘eccezione’ pretesa dalla Corte di giustizia: si legge infatti che «indipendentemente dalla collocazione dei fatti» (collocazione temporale, 10 c.i.d.) mai i giudici nazionali potranno far valere la regola enucleata nella prima sentenza della Corte del Lussemburgo (e ribadita, pur sibillinamente e contestualizzata, nella seconda).
Non vi è dunque alcuna possibilità, anche dopo l’adozione della Direttiva, di giungere al risultato prospettato dalla Corte di giustizia nella sentenza del 2015, poiché ciò lederebbe l’identità costituzionale inviolabile del nostro Paese. Tecnicamente non si tratta di un’applicazione dei controlimiti: ma nella sostanza vi assomiglia parecchio.
Una presa di posizione così tranchant ha già suscitato alcuni interrogativi nel dibattito. In una sede divulgativa come questa non è possibile addentrarsi nel dettaglio delle riflessioni; in massima sintesi, però, pare opportuno darne un minimo conto, anche per provare a riflettere al lettore non specializzato la complessità di temi non facilmente trattabili dagli operatori dell’informazione.
Si è fatto notare che:
- a) la Corte costituzionale avrebbe impropriamente sostituito la propria interpretazione del diritto UE a quella offerta – imposta – dalla Corte di giustizia. Quest’ultima, difatti, riteneva l’art. 325 TFUE sufficientemente ‘tassativo e determinato’ e quindi rispondente agli standard minimi delle tipiche garanzie penali. A quale titolo la Corte costituzionale si è discostata da questa interpretazione (giudicandolo, al contrario, non sufficientemente ‘tassativo e determinato’), posto che per costante giurisprudenza il diritto UE va applicato secondo il senso ad esso attribuito dal ‘proprio’ giudice?
- b) A prescindere dalle precedenti considerazioni, la Corte avrebbe comunque potuto cogliere l’occasione per far presente al legislatore italiano i difetti – a tutti noti – di una disciplina interna sulla prescrizione altamente opinabile.
Proviamo, nei limiti del tono divulgativo di cui sopra, a rispondere.
- a) La Corte costituzionale non sembra aver sostituito il significato dato dalla Corte del Lussemburgo all’art. 325 TFUE con il proprio. Semmai, ha preso esattamente atto di quel significato, constatando come esso non sia compatibile con la tutela dell’identità costituzionale interna. Il diritto UE va senza ombra di dubbio applicato secondo l’interpretazione ad esso conferita dalla Corte di giustizia: ma è proprio a partire da quel significato che la Corte costituzionale è tenuta a custodire i principi supremi dell’ordinamento interno, valutando di volta in volta se il diritto UE (come interpretato dalla Corte di giustizia) sia con essi compatibile. Se questa operazione non fosse possibile, cosa rimarrebbe della dottrina – e della possibile pratica – dei controlimiti?
- b) La disciplina interna sulla prescrizione in materia penale appare difficilmente tollerabile. Un ‘monito’ al legislatore, nel tipico stile in cui la Corte ci ha spesso abituati (e che aveva in qualche modo proposto nella stessa ordinanza del 2017) sarebbe stato, forse, davvero opportuno.
Rimane solo da sperare che la delicata vicenda descritta stimoli il Parlamento in tal senso.