di Marco Deplano
A maggio 2019, come ogni cinque anni, i cittadini europei sono chiamati ad eleggere i propri rappresentanti al Parlamento europeo. Le leggi che regolano la competizione elettorale sono norme nazionali. Nel caso dell’Italia, ad esempio, è la legge ordinaria 18 del 1979 a regolare il meccanismo dei collegi. Questa legge è stata più volte modificata durante i suoi quarant’anni di vita. Eppure continua a scontentare molti. La ragione del malcontento risiede negli accorpamenti tra territori che hanno caratteristiche demografiche, morfologiche e linguistiche molto diverse. Proprio il fattore linguistico è stato uno degli elementi che ha permesso un intervento sul testo della legge italiana a vantaggio di alcune regioni a Statuto speciale, così da garantirne una rappresentanza al Parlamento di Strasburgo. La Sardegna no: ancora oggi, condivide il collegio insulare con la Sicilia. In virtù di una popolazione assai maggiore rispetto alla prima (circa cinque milioni di abitanti contro poco più di un milione e mezzo di sardi), il sistema attuale è penalizzante. Più siciliani votano, meno possibilità hanno i sardi di eleggere degli europarlamentari del proprio territorio. Superare questo meccanismo è possibile. Vediamo quali sono le tre strade percorribili.
La prima ipotesi è interna allo Stato italiano. Modificare la legge italiana 18 del 1979 che disciplina la ripartizione dei collegi, estendendo il principio di equa rappresentanza ai sardi, in quanto comunità che parla una lingua minoritaria riconosciuta a livello internazionale e pertanto da tutelare, in linea con la Costituzione repubblicana. Una strada che appare semplice, ma lastricata di problemi politici. Questo principio, riconosciuto a più riprese ad altre minoranze caratterizzate da differenze e specialità, a noi è stato finora negato. Se la proposta approda in Aula, basta la maggioranza semplice per la sua approvazione.
La seconda opzione è in atto da inizio luglio del 2018 e ha dei potenziali di riuscita. Un gruppo di consiglieri regionali della Sardegna ha consegnato al Presidente del Consiglio RAS una proposta di riforma della legge elettorale valevole sia per il Parlamento italiano (Camera e Senato), sia per l’Europarlamento. In relazione a quest’ultimo, il testo prevede che “la ripartizione dei seggi si effettuerà dividendo il numero degli abitanti della Repubblica per il numero dei membri che spettano all’Italia in seno al Parlamento europeo”. Questo percorso, rischia comunque di non risolvere il problema di una non equa rappresentanza e alimentare la confusione, poiché si tratterebbe di un modo artificioso di aggirare la ripartizione dei collegi, ma il dato numerico rischia di dare sempre torto ai sardi, proporzionalmente pochi in rapporto al numero di seggi assegnati all’Italia e alle numerose aree della Repubblica con un tasso di popolazione sensibilmente più alto.
V’è infine una terza strada. La più visionaria e anche quella più coraggiosa, che può essere percorsa fin da subito, ma sarà valida solo a partire dalle elezioni al Parlamento europeo nel 2024. Le cause di questo ritardo hanno nomi e cognomi, e siedono tutti (quando ci vanno) al Parlamento europeo di questa legislatura agli sgoccioli. Con la Brexit, i 73 seggi del Regno Unito rimangono vacanti. La proposta, approvata nella Commissione AFCO di Bruxelles già a febbraio 2018, era quella di ridistribuire 27 di questi seggi tra i 14 Stati membri sottorappresentati rispetto alla propria popolazione; mentre i restanti 46 posti ‘in riserva’, avrebbero costituito il terreno fertile su cui edificare i collegi transnazionali. Questo testo, arrivato all’attenzione della plenaria a Strasburgo, è stato affondato dai voti contrari in blocco del partito popolare europeo (PPE). Il dato interessante è che quasi tutti i parlamentari eletti nel collegio delle isole Sardegna e Sicilia hanno votato contro la proposta o si sono astenuti (il M5S ha votato a favore, così come ALDE, tra gli altri). I ‘nostri’ rappresentanti uscenti, si sono mostrati incapaci di uscire dalla logica di una
rielezione su base ‘nazionale’, confermando in buona sostanza una legge elettorale europea che ricalca la precedente, aggiungendo alcuni elementi come lo sbarramento tra il 2 e il 5% e allontanandosi per l’ennesima volta dalla suggestione di un’Europa che supera i limiti degli Stati nazionali ottocenteschi. Rilanciamo la proposta di un collegio transnazionale per la Sardegna e la sua originaria isola sorella, la Corsica.
Che fare: la Sardegna e la Corsica sono due tra le isole più importanti del mar Mediterraneo. Hanno caratteristiche morfologiche, socioeconomiche e strutturali molto simili. Con una densità demografica armonicamente distribuita tra i due territori (1.652.000 la prima, 330.000 la seconda), e un comune problema di sottorappresentazione all’interno delle istituzioni di vario livello. Proponiamo quindi un collegio transnazionale Sardegna e Corsica, che sia il punto di partenza per un quadro di collaborazione più ampio, attraverso la formazione di un nuovo Gruppo Europeo di Cooperazione Territoriale permanente (GECT), supportato dalla Consulta corso-sarda. L’obiettivo trasversale è quello di superare le maglie stringenti delle norme degli Stati di appartenenza, avere la garanzia di un potenziamento della propria rappresentanza nelle sedi europee, a partire dall’Europarlamento. Tutto questo si può fare, sappiamo come farlo. Abbiamo bisogno di cittadini sardi e corsi pronti a prendere in mano il proprio destino, anziché sperare di eleggere qualche rappresentante grazie all’astensione di un’altra isola, diversa e lontana da noi.
Tema interessante, ma proposte incoerenti. Come si può proporre di liberare la Sardegna da una posizione elettoralmente subalterna (per dimensione demografica abbinata alle liste di circoscrizione) rispetto alla Sicilia, immaginando di metterla in una posizione dominante peggiore rispetto alla Corsica (il rapporto demografica è di 1:5 rispetto a quello di 3:1 con la Sicilia)? I Corsi hanno reputazione di sapersi difendere contro soprusi veri o immaginari.
Sarebbe invece legittimo rivendicare una maggiore equità fra territori dell’UE nella rappresentanza nel PE. Il principio nazionale è già garantito attraverso il voto uguale di tutti gli stati all’interno del Consiglio, principale organo legislativo, e non c’è alcuna ragione di tenerne conto un’altra volta, in modo peraltro incompleto e improvvisato, nel PE. Paesi piccoli come il Lussemburgo e Malta, e meno piccoli, ci guadagnano due volte: un voto pieno nel Consiglio e una sovra-rappresentanza fino a 1:10 nel PE.
Un’altra proposta interessante sarebbe il rispetto di alcune regole non numeriche in tutti gli stati membri per le elezioni europee: 1. prevedere obbligatoriamente oltre la preferenza di schieramento (esplicita o implicita) anche una preferenza individuale; 2. eleggere i deputati europei in circoscrizioni che non possono superare una certa dimensione, per esempio tre seggi, in modo da migliorare il processo di selezione democratica e rinforzare la responsabilità individuale degli eletti. La maggior parte degli stati più grandi eleggono i loro eurodeputati attraverso liste bloccate, mentre l’Italia prevede per le europee le preferenze individuali, sanciti dall’art. 48 non applicabile all’occorrenza, ma palesemente violato da tutto le leggi elettorali delle ultime quattro legislature.
L’idea di far eleggere una quota di eurodeputati su liste transnazionali circola da anni in ambienti bruxellesi e strasburghesi, cioè nell’élite eletta e fra i loro consulenti remunerati; essa mira tuttavia nella direzione opposta: meno responsabilità, più potere alle strutture di fatto incontrollabili.
E (quasi) nessuno, a parte il questa ragione meritevole autore, ne parla!