La delibera dell’Ufficio di Presidenza della Camera che impone il ricalcolo retroattivo degli assegni vitalizi degli ex parlamentari solleva più di un dubbio di legittimità ma, poiché si tratta di un atto interno, difficilmente sarà sottoposta al vaglio di un giudice terzo ed imparziale.
Con delibera dello scorso 12 luglio, l’Ufficio di Presidenza della Camera ha deciso di rideterminare dal prossimo 1° gennaio 2019 la misura degli assegni vitalizi e delle quote di assegno vitalizio dei trattamenti previdenziali pro rata nonché dei trattamenti di reversibilità relativi agli anni di mandato svolti fino al 31 dicembre 2011. Per effetto di tale ricalcolo, la quasi totalità dei 1.405 ex deputati interessati subiranno una decurtazione, talora sensibile, dell’assegno vitalizio (per 840 di costoro tra il 31 ed il 60%), fermo restando il minimo di 980 euro (elevabile a 1.470 se il ricalcolo supera il 50% di quello già in godimento). Non avranno, invece, un aumento i 67 che ne avrebbero avuto diritto in virtù dei maggiori contributi versati nelle molte legislature svolte (art. 1.4). I risparmi attesi sono di circa 40 mln. annui.
Rispetto alla proposta iniziale, presentata il 27 giugno e già qui commentata, l’unica modifica approvata prevede l’aumento del vitalizio fino ad un massimo del 50% per gli ex deputati che non hanno altri redditi annui superiori all’assegno sociale, eccettuati quelli dell’abitazione principale, oppure affetti da patologie gravi (art. 1.7). Di conseguenza, il metodo contributivo, oggi in vigore per i deputati in carica dall’1 gennaio 2012 (giusta delibere dell’Ufficio di Presidenza del 14 dicembre 2011 e 30 gennaio 2012), si applicherà (in certa misura: v. infra) retroattivamente anche per quelli cessati dal mandato prima di tale data.
Alla delibera non hanno partecipato i rappresentanti nell’Ufficio di Presidenza del gruppo parlamentare di Liberi e Uguali e del gruppo misto, temendo di poter essere eventualmente chiamati a rispondere del danno patrimoniale arrecato agli ex parlamentari. Il punto, su cui hanno espresso, su richiesta, il loro parere il Consiglio e l’Avvocatura di Stato, sembra d’estremo interesse, giacché si tratterà di valutare se, come ritengo, la delibera sia coperta dalla prerogativa dell’insindacabilità ex art. 68.1 Cost. oppure non vada considerata come esercizio di funzioni costituzionali ma mera attività amministrativa, come tale sindacabile (v. Corte cost., sentenza n. 337/2009, qui criticata). Quest’ultimo interrogativo ne richiama altri, ancor più problematici.
Difatti, benché approvata senza nemmeno un voto contrario, non sono pochi, né di poco momento i dubbi di legittimità sollevati da tale delibera. Tra essi, certamente quello che ha avuto maggiore risonanza mediatica riguarda la legittimità di un intervento retroattivo su diritti pensionistici già acquisiti. Intervento, peraltro, che prevede l’applicazione di specifici “coefficienti di trasformazione” – elaborati appositamente dall’Inps e in collaborazione con l’Istat (con una discutibile proiezione all’indietro delle previsioni statistiche) – atti a correggere il criterio di calcolo contributivo, applicato dalla Riforma Dini (legge n. 335/1995) ai dipendenti pubblici solo dal 1996.
Come noto, la Corte costituzionale non ha escluso in radice la legittimità d’interventi retroattivi sui trattamenti previdenziali in corso, purché provvisori e giustificati da esigenze eccezionali, quali ad esempio ragioni di contenimento della spesa pubblica (sentenza n. 446/2002, 6° cons. dir). È il caso dei c.d. contributi di solidarietà (sulla cui legittimità v. sentenza n. 173/2016, 11° cons. dir.), introdotto dal solo Ufficio di Presidenza della Camera, con delibera n. 210, nella seduta del 22 marzo 2017 (quella famosa dell’intervento squadrista dei deputati del M5S, con l’irruzione nella sala della riunione del deputato De Rosa). Diversamente, secondo i giudici costituzionali, saremmo di fronte a scelte arbitrarie, e perciò irragionevoli, che frustrerebbero quella certezza e sicurezza giuridica su cui si fonda lo Stato di diritto (sentenze nn. 92/2013, 5° cons. dir. e 216/2015, 4.2° cons. dir.).
Qui, invece, siamo in presenza di un intervento strutturale, non transitorio, che penalizzerebbe, come detto, gli ex deputati in modo irreparabile e, in certa misura, incolpevole, giacché prima del 1996, in pieno regime retributivo, non era data la possibilità, qualora avessero voluto, di effettuare versamenti contributivi aggiuntivi. Tra l’altro si tratta di un effetto retroattivo limitato ai soli ex parlamentari, e non agli altri dipendenti pubblici i quali – loro sì in forza di un privilegio – se andati in pensione prima della Riforma Dini (e magari dopo appena 19 (14 per le donne) anni, 6 mesi e 1 giorno) – continueranno a percepire una pensione calcolata con il metodo retributivo. Nonostante quanto enfaticamente pubblicizzato, dunque, gli ex deputati non sono equiparati ma penalizzati rispetto agli altri pensionati pubblici, poiché dal prossimo 1° gennaio non saranno più i primi ma i secondi che continueranno a godere d’un trattamento previdenziale di favore.
È questo, a mio modesto parere, il punto centrale sollevato dalla delibera in commento: se l’autonomia normativa di cui ciascuna camera gode ex art. 64.1 Cost. possa esplicarsi in materia di trattamento previdenziale dei loro ex componenti e, in caso positivo, goda di una discrezionalità tale da potersi tradurre in regole tali da differenziarli, stavolta in negativo, rispetto al regime previdenziale previsti per la generalità dei cittadini.
Sul punto la Corte costituzionale (sentenza n. 289/1994, 3° cons. dir.) ha precisato che gli assegni vitalizi differiscono dalle pensioni ordinarie del pubblico impiego sia perché non collegati ad una retribuzione ma all’indennità di carica goduta in relazione all’esercizio di un mandato pubblico, sia perché si tratta di un “particolare tipo di previdenza (…) che, nella sua disciplina positiva, ha recepito, in parte, aspetti riconducibili al modello pensionistico e, in parte, profili tipici del regime delle assicurazioni private”, con un’accentuazione di quest’ultimo profilo soprattutto dopo la riforma del 2012. Ma tale diversità di natura e di regime può spingersi fino al punto da ritenere di per sé ragionevole un simile strutturale intervento retroattivo che la giurisprudenza costituzionale ha invece escluso per il pubblico impiego? (sul punto si richiamano le condivisibili osservazioni qui svolte dal consigliere Buonomo).
È nella risposta a questo quesito che va ricercato il motivo per cui si è deciso di riprendere la soluzione dalla delibera interna dell’Ufficio di Presidenza, anziché optare per la via legislativa, seguita nella scorsa legislatura dalla proposta di legge Richetti (approvato dalla Camera ma non dal Senato alla fine della scorsa legislatura), dal contenuto sostanzialmente analogo all’attuale delibera.
Soluzione – quella regolamentare – che ha dalla sua certamente la prassi, come noto non affatto irrilevante in materia parlamentare, in base a cui la materia previdenziale è dal 1954 disciplinata tramite regolamenti interni ma che, ora come non mai, solleva ulteriori dubbi.
Innanzi tutto, per la prima volta in materia di trattamenti previdenziali, le due Camere non sono allineate, con la paradossale conseguenza che – poiché ai fini previdenziali conta la sede in cui si è svolta l’ultima legislatura – chi è stato prima senatore e poi deputato percepirà un assegno inferiore rispetto a chi è stato prima deputato e poi senatore.
In secondo luogo, se è vero che il trattamento previdenziale condivide con l’indennità la medesima funzione di garantire il libero mandato del parlamentare, di modo che il timore per la sua futura sicurezza economica non possa condizionarne negativamente l’esercizio, non si comprende perché il primo non debba essere regolato per legge così come l’art. 69 Cost. richiede per la seconda e come trova indirettamente conferma nell’articolo 12.3 R.C., il quale, non a caso, non include espressamente il Regolamento per il trattamento previdenziale degli ex deputati tra quelli che l’Ufficio di Presidenza può approvare. Tale regime speciale costituisce un’elusione del dettato costituzionale, analoga a quella operata dall’art. 1 l. 1261/1965 che, anziché individuare direttamente l’indennità parlamentare, ne ha rinviato la determinazione agli Uffici di Presidenza delle due Camere. Si invoca, pertanto, l’autonomia regolamentare sancita dall’art. 64.1 Cost. proprio in una materia – i trattamenti economici dei parlamentari – nella quale essa incontra un significativo limite nella riserva di legge prevista dal successivo art. 69 Cost.
Infine, ma non per ultimo, la decisione di ricorrere ad una regolamento interno sembra rispondere all’intento di sottrarlo ad un controllo giurisdizionale esterno, ordinario, amministrativo (v. supra) o costituzionale che sia. Il regolamento appena approvato, infatti, potrebbe essere certamente impugnato dinanzi agli organi giurisdizionali interni, e cioè in primo grado dal Consiglio di giurisdizione e in secondo grado dal Collegio d’appello, della cui imparzialità e indipendenza da tempo però si dubita (v. Corte cost., sentenze nn. 154/1985, 4.4° cons. dir., e 120/2014) perché composti da deputati inevitabilmente indotti a giudicare in base a criteri politici (lo schema seguito fino alla passata legislatura – ad oggi non risultano costituiti – è di due deputati della maggioranza e uno dell’opposizione). Né tale terzietà può ritenersi di per sé assicurata dal sol fatto che di tali organi non possano far parte i componenti dell’Ufficio di Presidenza contro i cui provvedimenti si è fatto dinanzi ad essi ricorso (art. 12.6 R.C.). In forza di tutto ciò, si pone dunque ancora una volta, e con maggior forza, il problema se una siffatta giurisdizione domestica leda l’articolo 24 Cost. secondo cui “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”.
Problema acuito dal fatto che molto difficilmente tale regolamento potrebbe essere oggetto di giudizio della Corte costituzionale la quale, nel contesto di una consolidata giurisprudenza che ha resuscitato il mitico feticcio della insindacabilità degli interna corporis, ha dato un’interpretazione molto ampia dell’autodichia di ciascuna camera, escludendo da essa solo i rapporti con i soggetti terzi riguardanti “attività non direttamente strumentali all’esercizio delle funzioni parlamentari” (art. 12.3.e) R.C.); rapporti in cui, però, la Corte costituzionale ben potrebbe includere quelli con gli ex parlamentari, proprio perché ormai terzi rispetto alle camere di cui sono stati membri (v., da ultimo, la discussa sentenza n. 262/2017 in cui si è registrata la dissociazione tra relatore ed estensore).
Concludendo: il pretendere dagli altri quanto non si vuole a sé applicato è già di per sé biasimevole. Ancor di più farlo in modo e forme tali da creare irragionevoli disparità di trattamento in danno di chi così vedrebbe reso difficoltà l’esercizio del proprio diritto di difesa. Se poi il tutto viene ammantato dall’imperante qualunquismo antiparlamentare che vuole i parlamentari eguali a tutti gli altri cittadini non si può che temere che quella contro i vitalizi sia solo una tappa di una più vasta strategia che, in nome della battaglia contro gli odiosi privilegi, metterà in discussione le attuali prerogative dei singoli parlamentari e, con esse, la dignità della loro funzione e di quella dello stesso Parlamento.