La questione migratoria sta diventando cruciale negli stati europei e nelle istituzioni dell’UE: se la minaccia alla stabilità dell’Eurozona sembrava potesse venire dalla finanza, oggi sembra che la madre di tutte le instabilità sia la questione migratoria. Ma cattive ricette economiche e cattiva gestione delle politiche migratorie sono due aspetti collegati. A mostrarcelo è la Germania. Un’inchiesta comparsa su Die Zeit attesta come già nel 2012 il direttore dell’Ufficio federale per le migrazioni e i profughi (Bundesamt für Migration und Flüchtlinge) avesse chiesto all’allora Governo federale di aumentare le risorse a disposizione dell’Ufficio per una cifra pari a (soli) 25 milioni di euro. Ma l’allora ministro delle finanze Schäuble rigettò la richiesta, perché avrebbe ostacolato il suo spasmodico e monomaniaco sforzo di raggiungere il famigerato pareggio di bilancio. Eppure, già nell’autunno 2012, era chiaro che l’Ufficio federale non poteva gestire la montagna di richieste di asilo che si stava accumulando dinanzi ai suoi funzionari. L’austerità tedesca aveva portato il rapporto tra funzionari decidenti sulle domande di asilo e queste ultime a livelli insostenibili, almeno se paragonato a quello della vicina Olanda (ove 500 funzionari fronteggiavano 15.000 domande, quando in Germania 300 funzionari erano alle prese con 200.000 domande). L’obiettivo dell’austerità tedesca imponeva non solo di non aumentare il numero dei funzionari apicali dell’Ufficio per le migrazioni, bensì di tagliarne 80. L’esito: tagliate anche le mansioni cruciali del controllo effettuato dall’Ufficio su quei soggetti privati incaricati di offrire corsi di integrazione agli immigrati. Di qui la quasi totale perdita di controllo sulla gestione dei richiedenti asilo, a partire dalla loro identità. La conseguenza ulteriore è quella per cui altissimo è il rischio di riconoscere il diritto di asilo a chi non spetta e di negarlo a chi spetta, con ulteriori ricadute sulla sicurezza.
Ma la storia non è finita e il prosieguo è assai istruttivo. Nel 2015, il direttore dell’Ufficio federale per le migrazioni e i rifugiati che aveva sollevato il problema, dinanzi alla sordità del Governo federale, si dimette e al suo posto compare un nuovo direttore che già aveva rivoluzionato la gestione dell’Agenzia federale per il lavoro (Bundesagentur für Arbeit). Quella rivoluzione gestionale era avvenuta grazie alle preziose (e ben pagate) consulenze offerte dalla nota agenzia di consulenza privata McKinsey. E il modulo si ripete anche per l’Ufficio per le migrazioni: stavolta, chissà come mai, i soldi si trovano e solo nel 2016 McKinsey e altre agenzie di consulenza private ottengono i 25 milioni di euro che nel 2012 non potevano essere destinati alle risorse pubbliche dell’Ufficio federale. Risultato? I metodi manageriali hanno condotto all’obiettivo della riduzione delle pratiche dei richiedenti asilo, senza andare troppo per il sottile quanto alla qualità del lavoro. Vengono assunti precari che nulla sanno di diritto dell’immigrazione; viene introdotta nuova procedura per cui i funzionari che ascoltano le testimonianze dirette dei migranti non sono gli stessi che decidono sulle loro richieste di protezione. Gli errori di fatto e di diritto si moltiplicano e i ricorsi giurisdizionali anche, con il brillante risultato che ciò che prima intasava l’amministrazione oggi ingolfa la giurisdizione.
Può trarsi una morale da tutto questo? Provo a trarne una, anzi due, con tutta l’arbitrarietà della impressione a caldo. L’austerity non è fine a se stessa, ma serve a dirottare risorse dal pubblico al privato; la privatizzazione di funzioni pubbliche cruciali come la gestione dell’immigrazione, oltre che condurre alla mala gestio di cui sopra, ingenera insicurezza sociale difficile da controllare, anzi, facile da strumentalizzare.
* Associato di Diritto costituzionale, Università di Ferrara.