di Giacomo Menegus
Il prossimo 30 settembre 2018 dovrebbe tenersi il quinto referendum nella storia del Comune di Venezia per separare la città di Mestre dal capoluogo lagunare. Questa volta, tuttavia, diversamente dalle precedenti occasioni, sembra crescere il consenso per porre fine al “comune unico” che – sin dalla sua formazione nel 1926 (con l’annessione del comune di Mestre a quello veneziano) – si trascina dietro malumori e tensioni irrisolte tra le due città.
La consultazione rimane tuttavia in forse: il Consiglio dei Ministri uscente, guidato dal Presidente Gentiloni, ha infatti sollevato conflitto di attribuzioni nei confronti della Regione Veneto, perché con l’istituzione della Città Metropolitana (realizzata con la l. n. 56/2014, c.d. Delrio) lo scorporo dei comuni capoluogo sarebbe stato sottratto alla competenza regionale (prevista ai sensi dell’art. 133, comma 2, Cost.) per essere integralmente disciplinato dalla medesima legge ordinaria (in particolare art. 1, comma 22). Questo “passaggio di competenze” sarebbe avvenuto, secondo l’Avvocatura dello Stato, sulla scorta della previsione di cui all’art. 117, comma 2, lett. p), Cost., che consegna alla competenza esclusiva dello Stato la disciplina de «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane».
Ma andiamo con ordine e partiamo dalle vicende che conducono a questo quinto tentativo di separazione.
Tutto parte da una raccolta firme, avviata dai comitati civici nell’ormai lontano 2011, volta a promuovere una proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle due città: si raccolgono più di 9.000 adesioni, più che sufficienti per portare la proposta in Consiglio regionale. Il procedimento viene avviato prima dell’approvazione della legge Delrio e segue integralmente la normativa regionale dettata in materia di variazioni territoriali dei comuni (v. l. r. n. 25/1992 e seguenti modificazioni), la quale prevede – tra le altre cose – che il Consiglio regionale valuti la meritevolezza della proposta, sentito il comune interessato.
L’iter però ben presto si inceppa, perché nel frattempo scoppia lo scandalo degli appalti del Mose, che coinvolge molti esponenti di spicco della politica lagunare, Sindaco compreso. Il Comune viene commissariato ed è necessario attendere l’insediamento del nuovo Consiglio comunale per ottenere il parere richiesto per legge.
Alle elezioni del 2015 vince Luigi Brugnaro, dapprima incline allo svolgimento della consultazione, poi radicalmente contrario. La Regione riavvia ugualmente il procedimento: acquisito il parere contrario del Comune di Venezia, il 14 febbraio 2017 il Consiglio regionale esprime comunque un giudizio positivo di meritevolezza della proposta referendaria: favorevoli Lega, Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia, tendenzialmente contrari Forza Italia e Partito Democratico (anche se all’interno della sinistra non mancano esponenti di diverso avviso). Il Sindaco Brugnaro non ci sta e ricorre al TAR Veneto (il giudizio è tutt’ora pendente). Da parte sua la Regione, a guida leghista – pur rendendo noto di non voler fare campagna né a favore né contro – tira dritto e comunica il 13 marzo 2018 di aver indetto la consultazione per il 30 settembre 2018. A questo punto interviene il citato ricorso del Governo (annunciato il 21 marzo e depositato in Corte il 18 maggio), con il quale si chiede pure la sospensione d’urgenza delle procedure referendarie. Se poi la Corte si pronuncerà effettivamente sulla questione, dipenderà dal nuovo Governo appena insediatosi che – almeno secondo le dichiarazioni di Matteo Salvini – sarebbe intenzionato a ritirare il ricorso e lasciare via libera al voto.
Vale la pena, tuttavia, interrogarsi sul problema di fondo, comunque vadano le cose (visto anche che continua a pendere il ricorso dinanzi al giudice amministrativo): sussiste davvero un’invasione o un’interferenza nelle competenze statali da parte della Regione?
La tesi sostenuta dall’Avvocatura dello Stato è quella esposta in apertura: la legge n. 56/2014 individua quale Sindaco metropolitano ex lege il sindaco del comune capoluogo. In alternativa, la stessa legge consente di procedere all’elezione diretta del Sindaco metropolitano (a cui parteciperebbe l’intera cittadinanza della Città metropolitana, corrispondente alla ‘vecchia’ Provincia di Venezia), ma in questo caso bisognerebbe seguire l’articolata procedura prevista dall’art. 1, comma 22, l. n. 56/2014 la quale, tra le altre cose, prevede lo scorporo in diversi comuni del comune capoluogo.
Il modello di fondo è chiaro: il legislatore statale individua il sindaco metropolitano in via prioritaria nel sindaco del comune più importante; e solo in via secondaria, per il caso in cui si decidesse di procedere all’elezione diretta, si premura di evitare una scomoda e sconveniente coabitazione tra due figure di notevole peso politico – sindaco metropolitano e sindaco del comune capoluogo – scorporando preventivamente il relativo comune in più entità amministrative di minor peso.
Se la separazione promossa con il referendum del 30 settembre dovesse andare in porto, il sindaco metropolitano rimarrebbe dunque quello di Venezia, ma con un peso politico decisamente minore (guardando ai soli abitanti, 83.000 contro i 180.000 di Mestre), e si creerebbe un insidioso dualismo tra sindaco metropolitano e sindaco del comune più popoloso dell’area metropolitana (quello di Mestre appunto).
È evidente allora come il risultato di un eventuale esito positivo del referendum non risponda al modello immaginato dal legislatore statale.
Ma non è questo il punto: è davvero sufficiente che l’esito del referendum determini un’articolazione territoriale che confligga con il modello presupposto da una legge statale ordinaria per far venir meno la competenza regionale costituzionalmente prevista in materia di variazioni territoriali dei comuni?
Bisogna infatti ricordare che la disciplina adottata con la legge Delrio in tema di Città metropolitane trova il suo fondamento costituzionale nella previsione di cui all’art. 117, comma 2, lett. p), che attribuisce allo Stato la competenza esclusiva in materia di legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane.
Anche a voler intendere nella misura più ampia possibile la nozione di legislazione elettorale delle Città metropolitane – tale da ricomprendervi, oltre al sistema elettorale e alla definizione dell’elettorato attivo e passivo, pure la legislazione c.d. di contorno – mi sembra francamente arduo sostenere che si possa arrivare così a sottrarre la competenza in tema di variazioni territoriali dei Comuni alla potestà legislativa regionale.
Nella pur discussa sentenza n. 50 del 2015, la Corte costituzionale – chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della legge Delrio – ha affermato che la necessaria articolazione del comune capoluogo in più comuni, prevista da tale legge e funzionale alla diretta elezione del sindaco metropolitano, «non viola l’art. 133, secondo comma, Cost., non comprimendo in alcun modo le prerogative del legislatore regionale» (Considerato in diritto, p. 3.4.4).
La Corte sembra dunque suggerire che si possano ipotizzare (come altri hanno già sostenuto, v. ad es. qui) due percorsi paralleli per lo scorporo dei comuni capoluogo di Città metropolitana: l’uno strettamente funzionale all’eventuale opzione per l’elezione diretta del sindaco in conformità all’art.1, comma 22, della legge Delrio (e operante solo in questo ristretto ambito applicativo); l’altro espressione dell’art. 133, comma 2, Cost., valido per tutte le altre ipotesi di variazioni territoriali dei comuni.
Solamente in questo modo peraltro la previsione della necessaria articolazione del comune capoluogo prevista dalla legge Delrio può risultare conforme a Costituzione: non comprime in alcun modo le prerogative regionali discendenti dall’art. 133, comma 2, Cost., anche perché – se avesse inteso farlo – sarebbe risultata incostituzionale.
Si può allora concludere dicendo che se il processo referendario avviato dalla Regione Veneto dovesse condurre ad un risultato che non corrisponde al modello metropolitano immaginato dal legislatore statale il vizio non sta nell’iniziativa regionale – conforme al dettato costituzionale – ma piuttosto nel modo e negli strumenti impiegati dal legislatore statale nel plasmare la Città metropolitana. Se metodo e merito della legge Delrio – sui quali si è accanita ampiamente la dottrina maggioritaria – non sono stati all’altezza del compito, non si può certo chiedere alla Corte costituzionale di “salvare il salvabile” stravolgendo il sistema delle fonti di cui è l’ultimo custode.
Sarebbe dunque opportuno mettere da parte iniziative giudiziarie inconsistenti per affrontare pro e contro della separazione delle due città; un dibattito sostanziale sul tema, sostenuto da dati certi e argomenti seri, è quanto mai urgente perché i cittadini possano esercitare in modo consapevole la propria scelta. Finora, sulla stampa e sui mezzi di informazione locali, si è seguito con attenzione il poco esaltante scambio di carte bollate, limitandosi tutt’al più a riportare alcune dichiarazioni estemporanee dei vari schieramenti: a quando un approfondimento sul merito?
Non sono sicuro di avere capito la questione. Anzi forse ho capito la questione legal-amministrativa, ma non quella sostanziale: 1) Mi pare che la legge sulla formazione delle Cittá Metropolitane nasca dalla presunta esigenza accorpare le amministrazioni locali che frammentano i servizi pubblici resi ad una vasta comunitá di Cittadini che ruotano le loro vite intorno ad un centro di traffico perfettamente misurabile. Quel traffico evidenzia che i Cittadini riconoscono il bacino dei propri spostamenti preferenziali. 2) Mi pare che la legge fosse a favore degli interessi dei cittadini di cui parliamo, ma contro l’interesse delle amministrazioni publiche locali che perderebbero un’indipendenza decisionale che nulla ha a che fare con gli interessi dei cittadini. 3) Il caso di Venezia Metropolitana mi pare un’artificaile interpretazione del bacino di traffico, dove probabilmente, ma non ne sono certo, c’é piú traffico fra Mestre-Padova e Treviso che fra Mestre e Venezia (a parte il traffico turistico). Inoltre Venzia ha visibilmente problemi logistico-amministrativi ben diversi da tutte le altre Cittá Metropolitane 4) Per quale ragione viene negata la scelta dei Cittadini di unirsi o di separarsi? È ben diverso se la decisione la prendono le AP locali e se le prendono i Cittadini. Mi pare che il giudizio non possa essere interpretato in legalese-normativo, ma debba rifarsi il piú possibile al sentire dei Cittadini. Cordiali saluti
Gentile Stefano,
con la mia breve analisi non intendevo in realtà entrare nel merito delle questioni sostanziali che pone nel suo commento, sulle quali spero possa esserci un ampio e approfondito dibattito in vista del voto.
Più semplicemente ho cercato di dimostrare come gli argomenti giuridici con i quali Governo e Comune cercano di impedire lo svolgimento della consultazione siano – a mio parere – piuttosto inconsistenti.
Cordiali saluti,
Giacomo
Acuta nell’analisi e chiara nell’esposizione. Ineccepibile