Legittima difesa e doverosa prudenza: bisturi, non accette

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di Fabio Ferrari

Qualche anno fa mi trovavo a Strasburgo per motivi di lavoro; un giorno, rincasando, decisi di visitare un noto parco botanico della città.

Il mio proverbiale senso dell’orientamento mi consentì ben presto di perdermi, senza peraltro alcuna speranza di ritrovarmi, nel bel mezzo di quel raffinato verde: vagai nel nulla per qualche minuto, e finii per accorgermi di essere irrimediabilmente fuori strada quando i miei piedi poggiarono sul giardino non del parco, ma di una villetta che con esso confinava, solo parzialmente recintato. Non feci in tempo ad alzare gli occhi, e subito si affacciò alla finestra la proprietaria dell’immobile, con sguardo nonesattamente rassicurante. Sollevai immediatamente una mano, in segno di scuse, e con un cenno di sorriso lei mi mostrò – grossomodo – la via di uscita.

Non conosco la disciplina francese in tema di legittima difesa, ma se fosse stato in vigore il codice ‘Salvini’, forse avrei dovuto preoccuparmi: il punto in esame, sul contratto di governo, è generico, come lo è buona parte del testo (art. 12, § 2). Un po’ meno lo sono le dichiarazioni che l’attuale Ministro dell’Interno rilascia da tempo immemore in argomento; il suo obiettivo consisterebbe nell’eliminare quel segmento di legge che punisce l’eccesso di legittima difesa (art. 52 c.p.), sulla base di un principio che suona più o meno così: «se entri a casa mia per rubare, picchiare o uccidere io ho diritto di difendermi in tutti i modi, punto».

Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza: entrare in casa di Tizio per rubargli del cibo, per sottrargli l’argenteria, per percuoterlo o per ucciderlo significa, in tutti e quattro i casi, commettere comportamenti senz’altro delittuosi; difficilmente, però, si può fingere di ignorare che si tratta di reati molto diversi tra loro. Ciò non li rende moralmente meno spregevoli, ma impone al legislatore di modulare il livello di liceità della ‘risposta’ che Tizio può opporre al criminale, al fine di salvaguardare sé, i propri cari e il proprio patrimonio. Si tratta, dopo tutto, di un profilo del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), per il quale situazioni diverse vanno trattate in modo diverso.

L’obiezione a questo ragionamento, si sa, sembra molto semplice: quando, magari nel bel mezzo della notte, ci svegliamo di soprassalto, trovandoci di fronte persone sconosciute che minacciano la nostra sicurezza, e ledono la nostra intimità, non possiamo sapere quale sia la loro reale intenzione; né è possibile pretendere, in tali condizioni, un freddo, razionale equilibrio in grado di mettere perfettamente a fuoco il pericolo reale, nonché i mezzi più adeguati per affrontarlo.

Ma il punto è proprio questo: la disposizione che àncora l’esercizio della legittima difesa alla proporzionalità della stessa rispetto all’offesa consente al giudice di ‘entrare’ – per quanto sia possibile farlo in un processo – nella realtà dei fatti crudelmente accaduti, dandogli cognizione della concreta dinamica dell’avvenimento, dello stato psicologico dei soggetti coinvolti; e di come il malcapitato cittadino ha percepito la reale offesa che stava subendo, scegliendo così – quando possibile – gli strumenti più adatti per proteggersi.

Prendiamo la vicenda che mi riguarda: se invece dell’aria da sbadato turista avessi avuto, pur se in perfetta buona fede, un atteggiamento un po’ più minaccioso, avvicinando la mano alla fodera dei pantaloni invece di alzarla, e continuando ad avanzare verso l’immobile senza fermarmi, la signora avrebbe avuto il diritto, per esempio, di spararmi? O di lanciarmi un coltello? Sarebbe stata una difesa legittima e…proporzionata rispetto all’offesa che il suo domicilio stava effettivamente subendo? E se io avessi realmente avuto l’intenzione di rubarle dei beni, magari del cibo per sfamare i miei figli, senza però esercitare alcuna violenza fisica nei suoi confronti, sarebbe cambiato qualcosa? E se al posto del cibo avessi voluto sottrarle i gioielli di famiglia per rivenderli?

Sono tutte domande lecite, anzi doverose: sarebbero però completamente inutili se la legge non prevedesse l’obbligo di una difesa proporzionata all’offesa, perché se così fosse conterebbe solo il personale giudizio dato dalla signora, senza alcun ancoraggio a tutti gli altri fatti, e a tutte le altre circostanze, che hanno caratterizzato l’evento.

Trovarsi di notte, in casa propria, con la pistola puntata alla tempia, autorizza senz’altro a difendersi con tutti i mezzi, e nonostante la spesso sleale – e a senso unico – cronaca giornalistica non ne dia conto, l’attuale disciplina del codice penale dà prova di saper proteggere le persone in queste situazioni.

Ciò non toglie che il tema sia spinosissimo, e la questione oggettivamente complessa. L’impossibilità, per alcuni cittadini, di fruire di un servizio di forza pubblica spesso esangue di risorse, così come il drammatico abbandono di vaste zone periferiche (e non) del nostro Paese nelle mani della (micro e macro) criminalità organizzata, rendono il dibattito semplicemente incandescente.

Ma proprio per questo la politica dovrebbe muoversi con i piedi stracolmi di piombo, facendo un uso rigoroso del senso critico, della responsabilità e delle categorie giuridiche che strutturano il nostro sistema penale – e costituzionale – nel suo complesso. E possibilmente armandosi, qualora si ritenga proprio necessario intervenire sulle leggi in vigore (in attesa di un inevitabile giudizio di legittimità costituzionale sul punto), non di agghiaccianti accette, ma di chirurgici bisturi.

Sempre sperando che questi ultimi siano in dotazione a certi bizzarri rappresentanti di alcune popolazioni celtiche del nord.

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