Mentre, com’è noto, la crisi relativa alla tormentata vicenda della formazione del governo si è positivamente conclusa, un lascito importante dal punto di vista costituzionale va comunque registrato.
La domanda è infatti questa: è stata la prima e sarà l’ultima volta che il Presidente della Repubblica non condivide la nomina di un ministro?
La risposta è no.
Ed infatti, anche se, per prassi, i Presidenti della Repubblica hanno teso a non porre vincoli “espliciti” all’atto della compilazione delle liste dei ministri, a quanto è dato sapere situazioni analoghe (al di là dei recenti casi Previti e Gratteri) si sono registrate sin già sotto le Presidenze Gronchi, Saragat, Pertini, Cossiga, Ciampi, Scalfaro…anche se, all’epoca, tali condizionamenti non venivano, di regola, dichiarati.
Si è discusso e continua a discutersi, tra i costituzionalisti, se, in questi casi, si abbia a che fare con atti (pur se “in negativo”) di indirizzo politico e se ciò fosse – e sia – conforme al ruolo di potere “neutro” (come tale, privo di responsabilità politica) che la nostra Costituzione affida al Capo dello Stato.
Chi è favorevole sottolinea, in particolare, che l’art. 92, c. 2 Cost., col prevedere che il Presidente della Repubblica nomina «su proposta» del Presidente del Consiglio, i ministri, presupporrebbe che la proposta di un ministro possa anche non essere accettata. Inoltre, viene rimarcata la posizione di preminenza del Capo dello Stato già eletto dal Parlamento ed “operativo”, rispetto ad un soggetto “solo” incaricato e che ancora attende l’eventuale decreto di nomina da parte, si noti, dello stesso Presidente. Ancora, si osserva che in Assemblea costituente era stata avanzata la proposta di attribuire un potere diretto di nomina dei singoli Ministri proprio ed esclusivamente in capo al Presidente della Repubblica (proposta che se non venne alla fine accolta fu perché si intese dare rilievo alla figura del Presidente del Consiglio – primus inter pares – nell’ambito del Consiglio dei ministri e non col fine precipuo di attribuirgli il potere di nomina dei singoli ministri).
D’altro canto, è vero che, anche tra i favorevoli, si precisa che il diniego sul nome di un ministro potrebbe esserci solo per ragioni oggettive. Ma verosimilmente sembra esser stato proprio questo il caso, dato che Mattarella può avere intravisto, nella situazione di incertezza (spec. sul piano economico) che l’individuazione di un determinato Ministro aveva creato – in ragione di prese di posizione da parte dello stesso non troppo chiare sulla collocazione dell’Italia nell’UE – dei rischi per la responsabilità internazionale dell’Italia (e «per i risparmi» di concittadini «e per le famiglie»).
Tuttavia, al di là delle interpretazioni del dettato costituzionale, la materia risulta “presidiata”, per lo più, da norme non scritte e da regole di correttezza e galateo costituzionale, col risultato di essere fortemente permeabile a dinamiche e situazioni contingenti.
In questo quadro, una concausa della crisi istituzionale di queste settimane può individuarsi nel subentro – senza quasi che ce ne accorgessimo ed in mancanza, ancora, di anticorpi – in luogo della cadenza lenta e silenziosa che caratterizzava la politica del secolo scorso, della cd. “real-time politics” dei social network, la quale, pure in un arco temporale piuttosto lungo, pare avere imposto le sue proprie nuove regole e strategie comunicative.
Come, tuttavia, dimostra la vicenda in questione, affinché i potenziali elementi di democraticità di un tale rinnovato scenario, specie in termini di trasparenza dell’operato delle Istituzioni, non trasmodino in un eccesso di polarizzazione e, quindi, nell’aperto contrasto, risulta necessario un surplus di volontà, disponibilità ed attenzione nel condurre la dialettica istituzionale. Cosa che nei giorni scorsi è ad un certo punto mancata, se è vero che la proposta di un nome non ampiamente condiviso, rilanciato da social e media, è parsa addirittura ad un certo punto bloccare la formazione del governo, senza che si riuscisse a trovare una qualche «altra soluzione».
Ebbene, in una situazione irrigiditasi al punto da far intendere la proposta di un ministro come un vero e proprio diktat nei confronti del Capo dello Stato, può pensarsi che la “legittima difesa” dell’Istituzione (nei riguardi di un organo costituzionale che, per il ruolo assegnatogli dalla Costituzione, «non ha mai subito, né può subire, imposizioni») sarebbe potuta bastare a determinare il volgersi della crisi verso lo scioglimento delle Camere.
Là dove il fatto che, invece, il Presidente Mattarella, nell’“era della comunicazione”, abbia deciso di ulteriormente esplicitare le ragioni della propria posizione, può essere visto come un segnale di fiducia ed un atto di chiarezza nei propri interlocutori politici e nell’opinione pubblica in generale.
“Fiducia” di cui, merita di osservarsi, il Capo dello Stato è stato, all’evidenza, successivamente ripagato, col reperimento, finalmente, di una soluzione politica in grado di mettere tutti d’accordo, “proposte relative ai ministeri” incluse.
Quanto, poi, alla “chiarezza”, rileva il fatto che ci sia dato, forse, ora, di conoscere alcune delle necessarie garanzie cui, anche all’atto dell’assegnazione di un determinato ministero, è chiamato il nostro Paese, al fine di poter adempiere ad impegni di carattere sovranazionale ed internazionale, che non solo travalicano gli indirizzi politici di maggioranza e la stessa durata dei governi, ma risultano, altresì, ormai, parte integrante della nostra Costituzione (risultandone, dunque, in questo senso, il relativo controllo presidenziale, un atto di garanzia costituzionale).
Vero è, peraltro, che si tratta di vincoli non del tutto irreversibili. Tuttavia, la loro messa in discussione, a maggior ragione nell’epoca dei social, dev’essere e non potrebbe non essere “apertamente discussa”.