di Davide Galliani
Non capita tutti i giorni di avere sulla scrivania tre libri come questi: Hans Kelsen, Lo Stato in Dante, Mimesis, 2017, Carl Schmitt, Legge e giudizio, Giuffrè, 2018 e Mario G. Losano, Norberto Bobbio, Carocci, 2018. In meno di un anno, tre pietre miliari, che brillano grazie agli Autori e ai temi indagati.
1. Il libro di Kelsen – presentato da Pier Giuseppe Monateri e con una postfazione di Tommaso Edoardo Frosini – reca come sottotitolo Una teologia politica per l’impero. Opportunamente, si riproduce la prefazione di Vittorio Frosini alla prima edizione italiana del 1974. Il libro qui segnalato porta un nuovo titolo (Lo Stato in Dante) rispetto a quello del 1974 (La teoria dello Stato in Dante), ma quello che preme evidenziare è che l’originale del 1905, intitolato Die Staatslehere des Dante Alighieri, era la tesi di laurea di Kelsen.
Come ricorda Tommaso Edoardo Frosini, riportando le parole del giurista viennese contenute nella sua (stupenda) autobiografia, per Kelsen, pur essendo questo primo libro certamente nulla più di un lavoro scolastico, senza pretese di originalità, si trattava in ogni caso dell’unico suo libro che non aveva ricevuto alcuna critica negativa. Vedremo…mai dire mai, caro Kelsen!
2. Il libro di Schmitt – tradotto e curato da Emanuele Castrucci, cui si deve anche una approfondita presentazione – reca come sottotitolo Uno studio sul problema della prassi giudiziale. Un utile breve lessico spiega il senso della traduzione italiana del titolo originale (Gesetz und Urteil. Eine Untersuchung zum Problem der Rechtspraxis), soprattutto il motivo per il quale si è tradotto Rechtspraxis con prassi giudiziale. Schmitt vuole parlare non della prassi giuridica, della prassi nel diritto, ma della prassi nell’ambito specifico del giudizio, che, grazie alla sua centralità concettuale, finisce per qualificare l’ambito complessivo del diritto. Insomma: Schmitt discute del momento del giudizio (Urteil), della prassi che lo contiene (Rechtspraxis) e di quanto siano in grado di contribuire ad una rilettura del fenomeno giuridico nel suo complesso. Direi che quanto a modernità del problema nessuno può avanzare dubbi.
Il volume rappresenta la traduzione italiana della tesi di dottorato di Schmitt del 1912, stampata per la prima volta in quello stesso anno e poi una seconda volta nel 1969. Si riporta anche la prefazione dello stesso Schmitt al volume del 1969, breve e significativa: mi avete distrutto e massacrato per quanto ho sostenuto in La dittatura, in Teologia politica, in Il custode della Costituzione, ne I tre tipi di pensiero giuridico, allora io vi dico che il saggio del 1912, volendo rendere immediatamente evidente il senso originario del giudicare e del decidere, riflette qualcosa della semplicità iniziale relativa all’autonomia della decisione. E’ il solito Schmitt, ruffiano, autoconsolatorio, che dice e non dice, ma insomma questo è Schmitt, non un altro. E come si fa a non leggere cosa pensava il giovane Schmitt a proposito del mestiere del giudice!
Solo un veloce appunto. Dopo la tesi di laurea del 1910 sul principio di colpevolezza, mai tradotta in italiano, il volume qui segnalato fu scritto da Schmitt mentre stava svolgendo l’attività di uditore giudiziario. Poi le opere e la vita di Schmitt presero altri corsi, prima eroici, poi tragici, infine solitari, ma certo è che uno Schmitt che, da uditore giudiziario, scrive un libro su legge e giudizio è un’occasione propizia per tutti gli studiosi di questo Autore.
Nonostante fosse un nazista senza coraggio – come lo definì Alberto Predieri sin dal titolo dei due (splendidi) tomi che gli dedicò nel 1999 – è indiscutibile che, negli ultimi decenni, il nome di Schmitt abbia attirato una quantità di scritti davvero impressionante, anche (per non dire soprattutto) da parte di autori di lingua inglese. Noi italiani, in fondo, lo abbiamo sempre masticato. Così non era nel Regno Unito, ma anche negli Stati Uniti, appunto fino a due decenni fa. Ed anche il libro qui segnalato sicuramente contribuirà ad arricchire le riflessioni sul giurista di Plettenberg. E’ stato del resto scritto un libro intero che ha per titolo questa domanda: che fare di Carl Schmitt?
Sia concessa a tale proposito una battuta. Non mi pare affatto un caso che proprio oggi l’attenzione per Schmitt sia aumentata in modo esponenziale. In fondo, ogni periodo storico ha i propri catalizzatori di pensiero, vivi o morti che siano; negli anni settanta del Novecento si chiamavano Michel Foucault, Franco Basaglia e tantissimi altri; oggi si chiamano anche Carl Schmitt. Non vi è alcuna volontà polemica in questa battuta. Ma, insomma, dopo che la “sinistra” ha rivalutato Schmitt, che certo dalla “destra” non è mai stato radicalmente osteggiato, a me vengono i brividi al pensiero che – studiosi a parte – qualche politico di oggi, quelli della nuova generazione, al quale (per sbaglio) capitasse in mano un libro di Schmitt, pensasse che le sue tesi politiche non erano in fondo poi così tanto sbagliate. Politica a parte, che barba tutte queste procedure vagamente kelseniane, il Quirinale che controlla ogni virgola, due camere che fanno lo stesso lavoro, ogni tanto ci si mette pure la Consulta. Questo Schmitt decisionista, in fondo, non è poi così malaccio. Amen.
3. E, a proposito della distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ecco infine il terzo libro segnalato, quello di Losano su Bobbio. Ho avuto l’onore di riceverlo due giorni fa direttamente dalla mani dell’Autore, al quale la prima cosa che ho detto è stata: “Che bello, un libro su Bobbio scritto da te, un libro che solo a tenerlo in mano fa intendere il contenuto”. Mi riferivo alle sue 510 pagine, che, ovviamente, essendo scritte da Losano, contengono anche l’elenco dei libri citati, l’indice dei nomi e l’indice analitico. E’ un vizio, un bellissimo vizio. In fondo, ad una persona come Bobbio, una persona come Losano non poteva dedicare poche pagine, ma quelle giuste.
Basta leggere la prima pagina per rendersi conto di cosa ha rappresentato Bobbio per Losano. Basta scorrere l’indice, quasi kelseniano, per comprendere la longitudine delle tematiche affrontate nel volume, che vuole essere una sorta di biografia di questo nostro paese, proposta per mezzo di una biografia culturale di Bobbio. Anzi, il lettore avrà in mano anche una sorta di autobiografia di Losano, il quale scrive di Bobbio e allo stesso tempo rifà di straforo e di traverso la storia parallela della sua vita.
L’Autore mi ha anche detto che ci sono voluti circa due decenni per scrivere questo libro. La mia costatazione è stata: “Bè, nel frattempo non sei stato con le mani in mano!”. E non dovevo certo ricordare al mio primo e unico professore di teoria generale del diritto – che quindi conosco, frequento, leggo e stimo da venti anni – tutto quello che ha scritto nel (solo) ventunesimo secolo (!), compresa la traduzione e la cura degli Scritti autobiografici di Hans Kelsen.
4. Un ultimissimo appunto. Non è vero che su Kelsen, Schmitt e Bobbio è stato scritto tutto (e il contrario di tutto). Il trittico di libri segnalati potrebbe contenere un sottile filo conduttore per ulteriori e originali pensieri su questi tre giganti della scienza giuridica del Novecento. Un sottile filo conduttore dal quale partire per evidenziare le somiglianze piuttosto che le differenze. Limitate, sicuramente, non vi è dubbio. A volte serve una potentissima lente di ingrandimento per scorgerle, ma non sono inesistenti. Mi riferisco in particolare a Kelsen e Schmitt.
Quanto a Bobbio – i cui legami con Kelsen erano e sono indiscutibili, dopo la (tutto sommato) precoce conversione – lascio la parola a Losano, che ricorda il curioso rapporto che il filosofo torinese ebbe con Schmitt. Tutto iniziò nel 1937. Schmitt, che aveva 49 anni ed già era Schmitt, ospitò a casa sua Bobbio, che di anni ne aveva 29. L’incontro fu molto cordiale. Cenarono insieme e poi discussero nei prati d’intorno. Cosa fece Schmitt? Consegnò a Bobbio proprio Gesetz und Urteil!
Non è tutto. Iniziò un fittissimo carteggio, che si interruppe nel 1953, per riprendere e terminare nel 1980. All’ultima lettera che Bobbio scrisse a Schmitt, questi rispose in meno di un mese. Si stimavano, non vi è dubbio. Era troppo forte il comune interesse che nutrivano verso Thomas Hobbes. Ma quanto sarebbe bello sapere cosa disse Schmitt a Bobbio quando gli consegnò Legge e giudizio…un libro che è stato scritto avendo letto gli Hauptprobleme di Kelsen del 1911, che sono sì criticati, ma con delle precisazioni che lasciano aperte non poche traiettorie di indagine, quei sottili fili dei quali ho parlato prima.
Sicuramente, e non è che sia proprio successo a tutti, Schmitt comprese che non si poteva criticare la purezza kelseniana dall’esterno di quel metodo. Dice apertamente che le sue tesi non sono obiezioni a quelle esposte nel 1911 da Kelsen: questo semplicemente perché alla prassi giudiziale un giurista che sostiene un metodo puro come quello kelseniano non attribuisce certo importanza. Il purista semmai si arresta di fronte al problema della discrezionalità del giudice, così come di fronte ad altre simili questioni.
Si dirà: ma questo non significa alcun tipo di avvicinamento. Come scordare, al di là delle conseguenze personali e tragiche che certe scelte di Schmitt ebbero su Kelsen, le accese polemiche che divisero i due. E chi le nega, le une e le altre. Voglio soltanto evidenziare che forse il solco che siamo soliti pensare, una sorta di muro insormontabile che separa i due, potrebbe mostrare, continuando a ragionarci sopra, qualche piccola, quasi impercettibile, crepa. A me sembra verificarsi questo nell’ambito della diatriba sulla possibilità che anche il Capo dello Stato potesse essere per Kelsen il custode della Costituzione, non solo la Corte costituzionale, almeno stando alle previsioni della Costituzione di Weimar. Iniziando a metabolizzare Legge e giudizio di Schmitt, non riesco a non pensare all’ultimo Kelsen.
Potrebbe sembrare un puzzle ancora da completare. Quasi come se non fossero state definitivamente incasellate, ciascuna al proprio esatto e preciso posto, le vite e le opere di Kelsen, Schmitt e Bobbio. Stai a vedere che è proprio così…anche perché che noia la lettura se non ti fa girare a mille le idee!