Il “contratto di governo” e le questioni migratorie: nihil sub sole novum?

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di Donatella Loprieno*

Nel contratto di governo, sulla cui “stravaganza” già hanno qui scritto Alessandro Morelli e Omar Chessa, le questioni legate ai fenomeni migratori vengono affrontate con un mix di superficialità, ridondanza, colpevole misconoscimento delle novità già introdotte dalla legge Minniti-Orlando e di quanto a livello di istituzioni europee si sta provando a fare specie in materia di Stato competente ad esaminare le domande di protezione internazionale.

A voler procedere con maggiore sistematicità e tralasciando l’incipit del par. 12 (significativamente intitolato “Immigrazione: rimpatri e stop al business) laddove si enfatizza a dismisura il costo insostenibile della questione migratoria per il nostro Paese, saranno qui attenzionati solo gli intenti macroscopicamente più implausibili.

Un primo elemento di criticità si coglie laddove si propone che le procedure per l’ottenimento e la revoca dello status di rifugiato (e, aggiungeremmo noi, delle altre forme di protezione internazionale previste tanto a livello europeo che interno) “siano rese certe e veloci, anche mediante l’adozione di procedure accelerate”. Gli estensori del contratto, evidentemente, hanno prestato poca attenzione alle rilevanti (e assai discutibili) novità introdotte lo scorso anno dal d.l. n. 13/2017, recante disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti di materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale, poi conv. con mod. dalla l.n. 46/2017, nota come legge Minniti-Orlandi. Tale normativa ha, infatti, inter alia, riformato il sistema amministrativo e giudiziario dei procedimenti in materia di protezione internazionale e, in specie, ha abolito il secondo grado di merito per le cause in materia di protezione internazionale e dal rito sommario di cognizione si è ritornati al rito camerale. Già quest’ultima scelta (rito camerale come unico grado di giudizio di merito ed eventuale udienza di comparizione), facendo del giudizio sulle controversie di protezione internazionale una procedura interamente cartolare, è stata a ragione ritenuta un grave vulnus al principio del contraddittorio e della pubblicità del processo.

Tra le misure di semplificazione si ricorda poi la nuova disciplina in materia di notificazioni che tante polemiche ha suscitato tra gli addetti ai lavori, avendo esteso ai responsabili dei centri o delle strutture la qualifica di pubblico ufficiale.

Discutibile, poi, l’idea (affatto nuova in realtà) di affidare ai paesi di origine, la gran parte dei quali si configura ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 come agente di persecuzione, la gestione della procedura per l’ottenimento dello status di rifugiato.

Ancora più inspiegabile è l’ipotesi di voler allineare le attuali forme di protezione agli standard internazionali non essendo chiaro a cosa esattamente le “parti contraenti” vogliano riferirsi: a quelli elaborati dall’UNHCR?  o dal Comitato dei diritti umani (l’organo di monitoraggio del Patto sui diritti civili e politici?) o dal Working Group on Arbitrary Detention? o dallo Special Rapporteur on the Human Rights of Migrants? Se così fosse, verrebbe da dire che i futuri governanti si sono letteralmente scavati da soli la fossa atteso che gli standard internazionali in materia di protezione internazionale elaborati dagli organismi richiamati sono mediamente elevati.

Nel contratto, poi, non si distingue mai tra i progetti di accoglienza integrata gestiti dalla rete SPRAR e quelli invece affidati ai Centri di Accoglienza straordinaria. Semplificando una materia davvero assai complessa, si deve sottolineare come nel primo caso abbiamo a che fare con un sistema pubblico di accoglienza cui già partecipano (e non da ieri) istituzioni centrali, locali ed enti del terzo settore, puntigliosamente disciplinato e che giustamente impone a enti gestori e enti attuatori obblighi di trasparenza e rendicontazione. Il secondo sistema, invece, nato per gestire l’Emergenza nord Africa ha finito per affidare alle Prefetture lo scomodo ruolo di apprestare, a fronte della scarsità di posti disponibili nella rete SPRAR e di arrivi consistenti e ravvicinati, misure straordinarie di accoglienza, sentito l’ente locale interessato, secondo le procedure di affidamento dei contratti pubblici e, in caso di estrema urgenza, con ricorso alle procedure di affidamento diretto. Confondere (per non distinguere) i due “canali” di gestione dell’accoglienza adombrando che, in ogni caso, si operi all’ombra del malaffare è operazione, pare a chi scrive, intellettualmente assai disonesta.

Ma parimenti a chi ha scritto quel documento pare sfuggire del tutto la distinzione tra migrazioni economiche e migrazioni politiche che, pur non riuscendo più (se mai davvero lo ha fatto pienamente) a inquadrare i fenomeni in oggetto, resta imprescindibile quanto meno sul piano del “diritto”, essendo diversi i plessi normativi che ne dettano le coordinate. E questo spiega, ma non giustifica, l’ulteriore indistinzione tra i centri preposti all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale e quelli che, invece, sono istituzionalmente volti alla detenzione amministrativa dello straniero irregolarmente soggiornante per prepararne il rimpatrio laddove questo non sia immediatamente eseguibile. Nel contratto, difatti, si prevede l’istituzione di “sedi di permanenza temporanea” finalizzate al rimpatrio, con almeno una sede per ogni Regione, previo accordo con la Regione interessata e “con una capienza sufficiente per tutti gli immigrati irregolari, presenti e rintracciati sul territorio nazionale, garantendo (vivaddio) la tutela dei diritti umani”.

Ora, già la legge Minniti, stanziando la somma di 13 milioni di euro, aveva previsto l’ampliamento della rete dei centri di detenzione amministrativa (con l’intento di istituirne uno per ogni regione) sentiti i presidenti delle Regioni. La leggerezza della formula “sentiti” i presidenti delle regioni coinvolte, usata nel testo della legge Minniti, può essere spiegata con la circostanza che nelle due sole volte in cui la Corte costituzionale si è pronunciata sul tema ha ritenuto, da una parte, ammissibile per le regioni prevedere attività di monitoraggio e di osservazione all’interno dei centri (sent. n. 300 del 2005) ma, dall’altra, che la costituzione e l’individuazione degli stessi, in quanto strutture funzionali alla disciplina che regola il flusso migratorio degli stranieri nel territorio dello Stato, attengono ad aspetti immediatamente riferibili alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.

Ad onor del vero, gli estensori del contratto subito dopo aver paventato la costituzione di centri per tutti gli stranieri irregolarmente presenti rilevano che il loro numero si aggirerebbe intorno ai 500.000 e che, quindi, astrattamente ogni regione dovrebbe “gestire” ben 25.000 “ospiti” in attesa di espulsione. Non tornando i conti, si vorrebbe fare affidamento su una politica dei rimpatri massiccia da finanziare attingendo ai fondi destinati per l’accoglienza con buona pace degli obblighi internazionali, sovranazionali ed europei in questa materia.

In linea con siffatto geometrico ragionamento, si paventa l’estensione del tempo massimo complessivo di trattenimento a diciotto mesi “in armonia con le disposizioni comunitarie”. Anche qui la svista è grossolana assai. La Direttiva Rimpatri, infatti, prevede come ipotesi estrema quella della detenzione amministrativa ai fini del rimpatrio, eccezionalmente da estendere fino ai 18 mesi. E del resto l’inutilità e l’inefficacia dei centri di trattenimento amministrativo sono ormai dato acquisito persino dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato.

Palesemente espressivi di discriminazione istituzionale e parimenti palesemente irragionevoli sono le previsioni in materia di revisione della materia dei ricongiungimenti familiari (materia snazionalizzata da tempo e che già riduce ai minimi termini i familiari astrattamente ricongiungibili) e di sussidi sociali al fine di garantire l’indebito utilizzo dei sussidi erogati. Se la memoria non ci inganna, le più imponenti truffe all’INPS hanno visto come attori protagonisti sedicenti imprenditori agricoli e come “sfruttati” malcapitati cittadini stranieri (spesso anche regolarmente presenti) ridotti in condizioni di indicibile sfruttamento lavorativo.

Concludendo, dunque, se invero nulla di nuovo sotto il sole c’è in questo stravagante patto per il Governo in materia di gestione delle migrazioni, ciò che deve allertarci è la gratuita e populistica cattiveria che traspare da quel paragrafo ad essa dedicato. Questo, insieme ad una preoccupante (e non è dato sapere quanto inconsapevole) ignoranza dei principi e delle normative che la disciplinano, ci obbligheranno a “monitorare” costantemente il futuro operato del Governo e le sue possibili derive.

*Ricercatrice di Istituzioni di diritto pubblico e professoressa aggregata di Diritto dei Migranti, Università della Calabria

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