di Roberto Bin
La sent. 103/2018 della Corte costituzionale è l’ennesima decisione che riguarda la complicatissima trama dei rapporti finanziari tra Stato e Regioni. Ma è una sentenza particolarmente importante per almeno due aspetti. Anzitutto perché sottolinea che i “tagli” alla finanza regionale, causati e giustificati dalla crisi, devono essere transitori, «devono presentare il carattere della temporaneità, al fine di definire in modo appropriato, anche tenendo conto delle scansioni temporali dei cicli di bilancio e più in generale della situazione economica del Paese». Sono sacrifici che possono essere imposti per le particolari circostanze finanziarie, ma che non possono poi diventare permanenti, riflettendosi inevitabilmente sulla qualità dei servizi (specie quelli sanitari) erogati dalle Regioni.
Ma la Corte aggiunge un’osservazione finale ancora più rilevante, che non riguarda i rapporti finanziari tra Stato e Regioni, ma il controllo del Parlamento sulle decisioni finanziarie del Governo. I tagli alla spesa regionale, previsti inizialmente da un decreto-legge del 2014 per un triennio (2015-2017), sono stati poi prorogati (e aggravati) con disposizioni comprese nelle successive leggi di stabilità o di bilancio, con effetti che si estendono sino al 2020, raddoppiandone la durata. Quello che ha persuaso la Corte a censurare l’ultima proroga è che essa è stata decisa senza una specifica valutazione della necessità di questi tagli finanziari da parte del Parlamento: «non emergono dai lavori parlamentari… le ragioni per le quali non sarebbe stato possibile – in luogo dell’estensione temporale di precedenti misure restrittive – provvedere ad una trasparente ridefinizione complessiva delle relazioni finanziarie tra gli enti coinvolti nell’ambito della nuova manovra finanziaria».
Questo è l’aspetto più rilevante della sentenza, perché la Corte ha reagito apertamente – e forse per la prima volta – ad una tecnica legislativa davvero inquietante e che da oltre vent’anni consente al Governo di sottrarre buona parte delle sue decisioni finanziarie al controllo parlamentare. Ciò deriva dal modo in cui da troppi anni vengono approvate le leggi finanziarie (o di stabilità o di bilancio: la terminologia è cambiata, ma non il problema): documenti che nascono già molto complicati, ma lo diventano ancora di più quando il Governo, come avviene puntualmente da tanti anni, interrompe il lungo e sterile dibattito parlamentare presentando il maxiemendamento e ponendo il voto di fiducia. Questa tecnica consente al Governo di imporre ad un Parlamento assai poco “professionale” di approvare il bilancio nei tempi prescritti, ma riduce la legge fondamentale per la manovra finanziaria ad un documento illeggibile, un unico articolo che contiene centinaia e centinaia di commi (1181 commi contiene la legge di bilancio per il 2018!) privi di un titolo o una rubrica, un vero incubo annuale per tutte la amministrazioni pubbliche (e non solo) che dovranno applicarlo.
Ben venga, dunque, questo monito della Corte costituzionale. Al di là della giusta sottolineatura per cui le misure dettate dalla contingenza non possono surrettiziamente “fissarsi” stabilmente nell’ordinamento, è molto apprezzabile il netto rifiuto di una prassi legislativa che stravolge le regole della democrazia parlamentare.