di Valeriana Forlenza*
La versione definitiva del “contratto di governo” fra M5S e Lega ha ottenuto il lasciapassare da parte degli iscritti del movimento a seguito della consultazione lanciata sulla piattaforma digitale Rousseau. All’indomani dell’accordo il leader Di Maio si affrettava a dichiarare “Non è un’alleanza” – pena altrimenti la lettera scarlatta “I” – “ma un contratto di governo”.
Al di là della condivisibilità o meno del contenuto e delle relative scelte politiche, il professor Omar Chessa ha già segnalato l’utilizzo improprio della dialettica: perché inserire nel dibattito politico l’istituto del contratto? Un omaggio, forse, al filosofo da cui prende il nome la piattaforma del movimento pentastellato? Dall’angolo di visuale del diritto pubblico, il rifiuto della retorica del compromesso e dell’alleanza sembra delegittimare il cuore pulsante della democrazia parlamentare.
Il diritto civile, d’altra parte, sembra risvegliarsi nel dibattito politico confuso e disorientato. Vale la pena spendere due parole per contestualizzare l’istituto chiamato in causa: contratto è per definizione l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale. I concetti di “parte” e di “patrimonialità” hanno in sé i semi della questione.
Le parti sono irriducibili ad un unico centro di interessi, ciascuna conserva la propria autonomia e matura nei confronti dell’altra diritti ed obblighi. L’istituto contrattuale presuppone un conflitto fra istanze giuridiche ed economiche pertinenti a soggetti distinti che, per il tramite del contratto, vengono a coesistere. Il compromesso parlamentare dovrebbe invece esprimere una voluntas politica unitaria che affonda le proprie radici nel pluralismo culturale ed ideologico, destinata a consolidarsi seppur in chiave dialogica con quanti vi dissentano.
La patrimonialità del rapporto, intesa come possibilità di valutazione economica, è un elemento chiave dell’istituto per comprenderne la struttura e la dinamica. La funzione del contratto è sempre più legata al mercato, alla sua formazione e al suo “corretto” funzionamento, anche se il legislatore del 1942 non avrebbe potuto figurarsi quest’aspetto che più tardi il sistema capitalistico avrebbe rivelato, e da qui discende la proliferazione di forme contrattuali atipiche quali factoring, leasing e così via.
E sempre più spesso il gergo dell’economia si fa linguaggio comune e immaginario collettivo: non la giustizia ma l’efficienza, non più i cittadini ma i consumatori, e per tornare a noi, non la proposta politica ma l’offerta, non l’alleanza, il contratto.
L’impianto politico-economico attuale, fondato sulla non ingerenza dello Stato nelle questioni di mercato se non per la salvaguardia delle condizioni di concorrenzialità, ha prodotto la paradossale conseguenza dell’ingerenza dell’economia nelle questioni di diritto e più in generale nelle esistenze di ciascuno. Il diritto pubblico resta inerme, spogliato perfino del lessico suo proprio, mentre il diritto civile, dal canto suo, impegnato da decenni in un’opera di svecchiamento che porta il nome di costituzionalizzazione sembra nuovamente inciampare nel pantano dell’utilitarismo.
Il fenomeno appena segnalato ha inizio a partire dagli anni Sessanta e rappresenta ad oggi un cantiere aperto. Lo scopo, oggi come allora, è far transitare all’interno dell’area civilistica i principi fondamentali della Costituzione dando loro uno specifico risvolto pratico nei conflitti fra privati. Basti pensare alle istanze di risarcimento del danno alla salute in sede civile indipendenti dal giudizio di responsabilità penale, accolte grazie al laborio del sapere accademico sull’art. 2059 del Codice Civile in rapporto all’art. 32 della Costituzione, o ancora, alla fondamentale importanza assunta dai principi di ragionevolezza e solidarietà per la composizione dei conflitti, oggi produttivi di vere e proprie norme.
Il diritto civile insegue le esigenze di socialità e di giustizia tipiche del diritto pubblico mentre quest’ultimo quasi rifugge la propria sede riparandosi in un’accezione del diritto privato scevra da condizionamenti liberal-democratici.
Il “contratto di governo” è stato volutamente presentato come il frutto di una negoziazione nell’ambito della quale ciascuna parte ha agito per sé e per assicurarsi la fiducia dell’elettorato, fiducia che ha senz’altro valore economico giacché le previsioni di voto sono in grado di assicurare un numero x di stipendi. Non solo, ciascun punto di governo ha un “costo” più o meno determinato o determinabile (basti pensare al reddito di cittadinanza, qualche calcolo sarà pure stato fatto).
Gli ultimi eventi ci consegnano due sconfitti, il diritto pubblico e il diritto civile: il primo cambia abito, il secondo si vede spogliato nel mentre ricuciva da sé la veste.
*Studentessa presso il Dipartimento di Giurisprudenza Università di Pisa
Trovo l’analisi troppo negativa, un po’ pedante, contestabile sul proprio terreno, chiusa e poco generosa. Il rinvio al contratto sociale del filosofo di Ginevra mi sembra fuorviante, benché il contesto sia quello, quello del patto fondante, concluso nel 1948 e confermato nel 2016. È possibile rinviare a Hobbes per una definizione più generica del contratto che si pone – filosoficamente – al di sopra della distinzione (non logica ma storica) fra istituti di diritto pubblico o privato. I protagonisti politici e i loro sempre più numerosi consulenti accademici si riferiscono espressamente al Koalitionsvertrag tedesco. Saranno così ignoranti i Tedeschi che seguono questa formula da oltre mezzo secolo? I problemi della formula italiana, secondo me, sono altri, ma di questo finora nessuno dei dotti commentatori parla, né su questo blog né altrove.
Ottimo! Condivido in pieno