di Omar Chessa*
Un tempo i governi nascevano da un “accordo di coalizione”. In questi giorni, invece, si predilige la formula “contratto di governo”. Cos’è successo? Nulla di importante – potrebbe rispondersi – perché la sostanza rimane la stessa. Ma le parole non sono mai neutrali. E l’uso del termine “contratto” per significare quello che un tempo era chiamato “accordo” o “compromesso” nasconde un grumo, forse inconfessabile, di paure e pregiudizi che vanno oltre la dimensione psicologica, per riguardare anche quella politico-costituzionale. Non c’è dubbio che oltre venti anni di “regolarità maggioritaria” abbiano lasciato un segno nella coscienza collettiva e nel senso comune. Mentre Hans Kelsen, uno dei principali teorici novecenteschi della democrazia parlamentare, celebrava il «compromesso parlamentare» tra partiti diversi quale fattore di neutralizzazione del conflitto politico-sociale e garanzia di qualità della legislazione, invece l’abbandono in Italia del sistema proporzionale puro all’inizio degli anni Novanta si accompagnò a un mutamento di paradigma nella percezione diffusa degli accordi parlamentari post-elettorali, ai quali dovrebbero sempre preferirsi – così vuole il senso comune che egemonizza il dibattito pubblico – gli accordi pre-elettorali, direttamente premiabili o sanzionabili dagli elettori col voto. E fu così che il compromesso parlamentare iniziò a essere chiamato, con intento palesemente spregiativo, “inciucio”.
Le elezioni politiche di marzo – come è noto – ci hanno consegnato un esito che nel Regno Unito si chiamerebbe hung Parliament. Nessuna coalizione o partito ha la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari, sicché un Governo non potrebbe che nascere dal compromesso parlamentare, dall’inciucio, appunto, tra forze che durante la campagna elettorale erano avversarie. Ecco dunque che salta fuori il “contratto”, parola e istituto dalla indubbia “sacralità”.
Nel sentimento collettivo imperante i compromessi, gli accordi di coalizione, gli “inciuci”, ecc., essendo il frutto di negoziazioni inter-partitiche, per ciò stesso poco commendevoli perché fatte sempre “alle spalle dei cittadini” e per certi versi contro la loro volontà, non hanno nulla di sacro e nobile, tanto che possono essere violati in nome di esigenze superiori (l’emergenza, la crisi, gli interessi nazionali, ecc.). Al contrario, non esistono istanze superiori in nome delle quali giustificare la violazione dei contratti che le persone comuni concludono quotidianamente per regolare i loro rapporti: cosa può esserci di più importante del sinallagma, dell’assunzione di impegni reciproci, della “parola data” che ha «forza di legge tra le parti»? Chiamando “contratto” quello che invero non è altro che un classico accordo di coalizione post-elettorale, i partiti contraenti mirano a rassicurare l’opinione pubblica e, forse, anche se stessi.
Dobbiamo chiederci perché la sfera pubblica avverta il bisogno di mutuare la terminologia dalla sfera privata, preferendo al lessico dello Stato quello della società civile (così come al government si preferisce la governance); e perché la logica giusprivatistica del contratto si sovrapponga alla logica giuspubblicistica dell’accordo di coalizione, quasi avesse il potere di rigenerare o redimere la sfera politica fornendole una risorsa di legittimazione extra-politica.
Si potrebbe avanzare l’ipotesi che ciò non sia altro che una manifestazione di “populismo”. Ma allora bisogna intendersi, una volta per tutte, su significato e ruolo di questa formula. Nella misura in cui evoca il “popolo” come fonte primigenia di valore, il populismo evoca una categoria intensamente “politica”. Ma in questo caso a essere evocato non è il popolo, insieme ai valori direttamente connessi, ma è piuttosto l’individuo privato, il quale infatti regola mediante “contratti” i propri affari e rapporti (con altri individui). Hobbes ci ha insegnato che una somma di individui non fa ancora un popolo, bensì solo una moltitudine disunita e dispersa. E prima ancora il diritto pubblico romano, perlomeno quello di età repubblica, insegnava che l’atto popolare per eccellenza non è il contratto, che infatti in quanto negozio privato pertiene al civis uti singulus, bensì è la lex.
Infine una domanda: ma siamo sicuri che il linguaggio privatistico (e individualistico) del contratto sia più degno e rassicurante del linguaggio pubblico e politico dell’accordo di coalizione? A ben vedere, il secondo descrive non soltanto le negoziazioni di soggetti auto-interessati, ma anche e soprattutto la spontanea, seppur parziale, convergenza tra attori politici che hanno obiettivamente qualcosa in comune, sia sul piano ideale e generale dei principi di giustizia che sul piano concreto e particolare delle linee programmatiche. Gli accordi si fanno con chi è più simile che dissimile, con coloro coi quali si ha già qualcosa in comune: un “qualcosa” che precede il (e prescinde dal) patto di coalizione.
Al contrario il linguaggio e la logica del contratto richiamano le differenze irriducibili tra individui distinti, che diffidano gli uni degli altri e che non riescono a trovare un punto in comune se non relazionandosi tra loro per il tramite di garanzie contrattuali. D’altronde il “contratto sociale originario” di cui parla la filosofia politica seicentesca e settecentesca presuppone precisamente individui che originariamente sono “gli uni contro gli altri armati”: e se accettano di condividere un progetto cooperativo, lo fanno proprio per tutelare se stessi e i loro particolarissimi interessi.
Le parole non sono mai neutrali, come ho detto. E se il diritto pubblico inizia a parlare la lingua del diritto privato qualcosa vorrà pur dire.
*Professore ordinario di diritto costituzionale Dipartimento di Giurisprudenza, Università di Sassari
Concordo sulla sostanza, ma non bisogna rendere il discorso troppo complicato. Non capisco la necessità di invocare l’ipsi dixit di Kelsen (il quale scrivendo per più di mezzo secolo ha detto tanto e spesso il contrario di quello che aveva detto prima), ritengo che il rinvio a Hobbes sia più appropriato, non al problema dell’unità in una pluralità (L. XVI) tuttavia, ex ipotesi risolto dall’art. 1 della Costituzione, ma alla riflessione sul fondamento dell’obbligatorietà dell’impegno contrattuale (L. XIV), la quale presuppone un giudice con potere sufficiente. Nel caso discusso il giudice dell’accordo fra attori politici è il popolo sovrano, l’elettorato, e il suo potere che le parti contraenti devono temere è il (prossimo) verdetto elettorale. Per questa ragione il peggior abuso che possano commettere i rappresentanti incaricati è di manipolare la procedura elettorale. In Germania – dove non tutto è perfetto – lo scopo del Koalitionsvertrag è quello, permettere agli elettori di giudicare, ovviamente ex post, e non (con avviene con leadership debole ed incerta) di permettere agli iscritti di censuare ex ante.